Piereto Fornaro è il soprannome, che mio padre Pietro Barison si è portato dietro per tutta la vita, ed in fondo, non gli dispiaceva. Pietro, ma che tutti ovviamente in famiglia chiamavano Piero, poiché dovette crescere in fretta, lo chiamarono Piereto. Nasce a Maserà il 3 gennaio 1925 in mezzo ai campi ai confini tra tre paesi Maserà, Carpanedo e Albignasego. Il papà è un giovane contadino, che però aveva fatto il Carabiniere ed era stato anche Comandante della Stazione di Roana e decorato con medaglia d’argento al valor civile, perché aveva salvato una famiglia dall’incendio ma che nel 1924 rifiutò di giurare fedeltà al fascismo e fu congedato immediatamente. Era il primo di quattro fratelli tre maschi e due femmine. Gli fu messo nome Pietro a ricordo dello zio Pietro morto in guerra sul Carso davanti a Gorizia nel 1917. Era solo un ragazzo quando finì la scuola elementare a Maserà ed il suo papà lo iscrisse al regio istituto tecnico agrario Duca degli Abruzzi a Brusegana. Era felicissimo di andare a scuola con il tram della Veneta, che passava da Maserà a Padova e poi in bicicletta. Allora non si usava fare sport anche se essendo nato in campagna si arrampicava sugli alberi come un gatto, ma un hobby vero e proprio non lo aveva, il suo hobby era la coltivazione dei campi. Aveva però cominciato a frequentare la scuola di musica della Banda Civica di Maserà e suonava la cornetta che il maestro gli aveva prestato.
Il suo papà era una specie d’intellettuale per l’epoca perché sapeva leggere e scrivere molto bene e d’inverno quando si faceva el filò nella loro casa o nelle case vicine Antonio leggeva il giornale, soprattutto l’Avvenire d’Italia e lo commentava a beneficio dei presenti. Tenete presente che la televisione non esisteva e la radio aveva un solo canale e trasmetteva solo i discorsi del Duce e per il resto era solo propaganda. Le altre radio era vietato ascoltarle e la modulazione di frequenza non esisteva. Antonio a 35 anni seguendo i consigli di un suo amico chirurgo dell’Ospedale di Padova si sottopose ad un intervento chirurgico per debellare l’ulcera gastrica che lo infastidiva. Non si sa cosa sia successo, ma Antonio da quell’intervento non ritornò più a casa. La bicicletta rimase parcheggiata nell’atrio del vecchio Ospedale.
Era il 1936 e in quell’anno sfortunato il piccolo Pietro, oltre al padre, perse il nonno e la nonna. Lui si trovò ad undici anni “capofamiglia” come si diceva allora con la mamma e quattro fratelli tutti più piccoli di lui. Nei campi era venuta a mancare di colpo tutta la forza lavoro e vi era anche il serio rischio, che i proprietari, ossia i Da Zara, ma in pratica il loro fattore, li cacciasse dalla casa. E ciò perché la famiglia non era più in grado di coltivare i campi e pagare di conseguenza l’affitto. Così il piccolo Pietro prese due importanti decisioni lui cercò lavoro in città anche se la città era abbastanza lontana e la mamma richiamò dal Belgio lo zio Ferruccio che era il fratello gemello del marito ed era emigrato all’estero subito dopo la prima guerra mondiale, perché non trovava lavoro ma conservava sempre l’idea di ritornare. Era stato un po’ giramondo ed aveva avuto una vita molto avventurosa ed ora la famiglia aveva bisogno di lui.
Dopo due anni durissimi di lavoretti nei campi e tentativi vari per fare il fornaio finalmente il piccolo Pietro a 14 anni trovò lavoro nel pastificio Benacchio al Bassanello che produceva la pasta per ristoranti e alberghi ma soprattutto lavorava per le forze armate. Il piccolo Pietro a 12 anni andava a lavorare in bicicletta da Carpanedo al Bassanello e tornava sempre in bicicletta. Subito il capo ed i pochi operai anziani lo presero in simpatia perché era una mascotte ed era anche un grande lavoratore. Gli sembrava di aver toccato il cielo con un dito, finalmente una busta paga vera tutta sua con cinque assegni familiari e una montagna di ore straordinarie. L’Italia in quel periodo entrò in guerra e gli operai partirono quasi tutti chi in Russia, chi fronte per il fronte greco albanese, chi in Africa. Per mandare avanti il pastificio allora assunsero le donne e le ragazze per fare i lavori, anche pesanti, che prima facevano gli uomini e i ragazzini . Così Piereto giovanissimo viene a trovarsi che è uno dei più esperti operai del pastificio perché tutti gli uomini più vecchi di lui partirono per fare il soldato. Lui diventa un responsabile di reparto e la direzione a 15 anni lo manda alla sera a fare la scuola guida per prendere tutte le patenti ed imparare a guidare il camion. Fecero, infatti, in tempo di guerra una legge speciale affinché si potesse guidare il camion anche a 16 anni perché allora le donne non guidavano e uomini validi non ce n’erano. Piereto sveglio com’era prende subito la patente di terzo grado a scoppio e a 16 anni guida il camion in giro per Padova per andare a fare le consegne della pasta e soprattutto per andare al campo Marte a caricare la pasta sui vagoni del treno per le spedizioni all’esercito, marina e milizia o come si diceva allora alle camicie nere.
Piereto è felicissimo del suo lavoro in città e della paga da uomo che riusciva ad ottenere e nel tempo libero coltivava coi fratelli più piccoli i campi che aveva a casa, l’orto, il vigneto, le mucche, l’asino e come hobby frequenta la banda di Maserà dove suona la cornetta. Erano anni tristi di guerra e di continue brutte notizie ma lui era felice perché nonostante la mancanza di un padre o di un nonno in giovane età riusciva a mantenere la sua famiglia e pagare l’affitto. La mamma nel frattempo sposò lo zio e l’affitto della “cesura” fu sempre mantenuto dai Da Zara.
A gennaio 1943 compì diciotto anni ed in aprile 1943 fece la visita di leva come tutti i neo diciottenni e fu ritenuto abile ed arruolato. L’8 settembre 1943 ci fu però la caduta del fascismo. La gente per qualche giorno credette che la guerra fosse veramente finita invece il peggio doveva ancora venire. Il 27 ottobre del 1943 Pieretto “ricevette una lettera” era la cartolina precetto come si chiamava allora che lo chiamava a fare il soldato. Gli crollò il mondo addosso, pensava che come capofamiglia fosse stato esentato dal servizio militare, pensava che lavorando per le forze armate sarebbe stato esentato dalla leva militare. Non conosceva nessuno e si sentì veramente solo e con un problema più grande di lui da affrontare. Si rivolse allora alla direzione del pastificio che lo rassicurò. Non presentarti gli dissero chiediamo noi l’esonero perché se vogliono mangiare non possiamo perdere un lavoratore come te. Lui ci credette e per precauzione gli dissero fai il turno di giorno e la notte vai a dormire per i campi e non fatti mai trovare a casa. Così fece ma dopo 8 giorni di notte si presentarono a casa sua quattro gendarmi , svegliarono tutti , intimidirono la mamma e lui per evitare il peggio tornò a casa e li seguì . Fu portato a Padova nella caserma vicino a Santa Giustina che era presidiata da truppe tedesche e lì vi rimase un po’ di tempo per il primo addestramento. Nel dicembre 1943 assistette al primo grande bombardamento di Padova che fece molti morti e lui fu mandato di notte a scavare sotto le macerie per raccogliere i morti.
Ai primi di gennaio 1944 Pietro viene inquadrato nell’artiglieria da campagna ed inviato ai confini di allora tra l’Italia e l’ex regno di Serbia Croazia Slovenia occupato però dalle truppe italiane e tedesche. La zona fu quella dell’attuale Villa Opicina sopra Trieste che però Pietro chiamava in sloveno Opcina. I tedeschi e quel che restava degli italiani temevano uno sbarco in forze degli eserciti alleati anglo americano nella zona di Trieste, Monfalcone, Porto Rose ecc. Il timore non era infondato poiché sbarcando nel golfo di Trieste una forza di invasione poteva sfondare velocemente ed arrivare in Austria e nel cuore della Germania in poco tempo tagliando fuori le truppe tedesche che risalivano dall’Africa. I tedeschi predisposero quindi una serie di batterie antinave su tutto il golfo di Trieste piazzando enormi obici dietro le colline del Carso sloveno e italiano pronte ad entrare in azione già ai primi segnali di entrata di una flotta nemica dal canale di Otranto.
Rimase con il suo reparto di artiglieria nei boschi vicino alle batterie costiere fino al febbraio 1945 con l’esercito e comandi dell’esercito tedesco che di fatto controllavano i reparti italiani. Aveva però un’idea fissa: tornare a casa e rivedere sua mamma ed i suoi fratelli. La popolazione era ostile e anche gli italiani si comportavano da occupanti tuttavia lui riuscì ad avviare un certo dialogo con alcune famiglie di quei posti nei vicini paesi di Opcina, Sezana, Lipiza.
Ad inizio 1945 le notizie che arrivavano dal fronte italiano facevano presagire l’irrimediabile sconfitta della Germania e del suo alleato Mussolini. Gli anglo americani avevano superato la linea gotica e si stavano preparando in pianura a sferrate l’attacco finale in grande stile e l’esercito tedesco era ormai da tempo sulla difensiva. Si ritornò allora a parlare di uno sbarco alleato nell’alto adriatico per tagliare le linee di rifornimento dei tedeschi ed accelerare la caduta del Reich. Ma nel frattempo si intensificavano le attività di sabotaggio dell’esercito partigiano jugoslavo comandato da Tito.
Senza notizie e senza contare su una rete di conoscenze, durante una notte di luna piena di febbraio avendo intuito che la situazione stava precipitando Piereto assieme ad altri cinque compagni si armarono di tutto punto e fuggirono dalla zona delle operazioni. Camminarono nei boschi per notti e giorni dormendo ove capitava cercando di stare lontano dalle strade perché troppo pericolose. Si imbatterono anche in una pattuglia tedesca che era in perlustrazione ma non ci fu alcun conflitto perché anche i tedeschi non sapendo quanti fossero gli italiani finsero di non vedere.
Ottennero anche un passaggio da un camion militare italiano che trasportava caffè ma ad un certo punto il camion vicino Palmanova urtò una mina e gli saltò l’assale posteriore. Fortunatamente nessuno fu ferito ed allora proseguirono a piedi. Ogni notte si spostavano dal loro punto di vista verso casa. Agli inizi di marzo passarono il Tagliamento e sembrò loro di essere ormai arrivati a casa. Tuttavia, seguendo i consigli dei più vecchi invece che scendere verso la pianura salirono verso le montagne del Cansiglio dalla parte friulana. Le notizie che arrivavano dalla pianura non erano buone. Gli americani non avevano ancora passato il Po ed allora bisognava stare nascosti. Nel Cansiglio Piereto venne in contatto con le formazioni partigiane di tutti i colori. La Brigata Nino Nannetti, le brigate Vittorio Veneto, soldati inglesi, la brigata Osoppo con il suo mitico comandante Milo, istruttori russi e la rivalità esistente tra le varie formazioni partigiane. Partecipa anche lui alle operazioni dei partigiani negli assalti alle colonne militari tedesche , ai sabotaggi e alla ricerca dei rifornimenti ed impara a fumare. Si parlava allora di sei settemila uomini presenti in Cansiglio e quindi servivano sempre grossi rifornimenti dalla pianura oltre all’aiuto formidabile fornito dalla popolazione e dalla Chiesa. Però Piereto non si fida perché vede attorno a se un mondo che non è il suo e che lo spaventa, dormire dove capita, mangiare dove capita, vendette continue, rastrellamenti, imboscate, morti ma anche amore libero, società socialista senza padroni, senza bandiere senza nessuno che comanda, vivere alla giornata. Dall’altra parte vedeva e veniva a sapere cosa avevano combinato in Istria e da loro in Cansiglio le brigate nere, l’arruolamento di banditi delinquenti che facevano violenza gratuita a tutti ed in tutte le direzioni , l’odio verso i tedeschi che se ti prendevano ti fucilavano sul posto. Ed in Cansiglio aveva cominciato anche a girare la voce che a Trieste vi erano i campi di concentramento tedeschi dove non si usciva vivi e se finivi nelle mani dei partigiani titini finivi nelle foibe.
Questo mondo lo spaventò e lui seppur collaborando, perché aveva acquisito una buona dimestichezza con le armi non volle mai venire inquadrato in una precisa formazione partigiana anche perché le varie formazioni non erano unite e spesso si combattevano tra loro. Ognuna cercava di prevalere e lui questo non lo accettava. La sua guida spirituale era in quel periodo il vescovo di Vittorio Veneto mons. Giuseppe Zaffonato ed i parroci della zona del Cansiglio che erano antifascisti ma non per questo legittimavano ogni violenza.
Nell’aprile 1945 arrivarono finalmente gli inglesi e vi fu una grande festa. Lui buttò le armi nel Tagliamento e venne temporaneamente ospitato in un campo fatto dai soldati inglesi a Vittorio Veneto. Non aveva documenti, le strade erano disastrate mancava anche il mangiare tuttavia in quei giorni drammatici la popolazione era tutta unita nell’aiutarsi a vicenda. Nel frattempo cominciavano ad arrivare notizia bruttissime su Trieste, Opicina e l’entroterra istriano. Gli americani e gli inglesi lì non erano arrivati ed anche la stessa Trieste era stata occupata dai partigiani titini che si lasciarono andare per 40 giorni a stragi, vendette, ruberie ecc. Una carneficina di cui non si conosceva nemmeno la reale entità.
Dopo circa due mesi finalmente da Maserà arrivarono i documenti e Piereto tornò a casa. Era disoccupato il pastificio aveva ripreso a lavorare ed alcuni suoi operai tornati dalla guerra avevano ripreso a lavorare ma non aveva più le commesse militari e quindi lavorava pochissimo e non aveva più bisogno di operai. Riprese perciò a coltivare la terra e nel frattempo cercava lavoro. Anche i suoi fratelli più grandi iniziarono a lavorare già a 14 e 15 anni.
Stava faticosamente riprendendosi dalle sofferenze della guerra quando gli arrivò la cartolina precetto per partire nuovamente militare nell’ancora denominato regio esercito. A gennaio infatti aveva compiuto 21 anni e all’epoca il servizio militare si faceva a 21 anni ossia dopo il raggiungimento della maggiore età. Gli ex partigiani potevano farsi esentare dal nuovo servizio militare ma lui non volle mai raccomandazioni o esenzioni ed a malavoglia partì di nuovo per il servizio militare dicendo : “ gli imboscati ed i raccomandati stanno a casa…. io dopo 19 mesi di naja sotto i tedeschi devo di nuovo fare la naja”. Cambiò però la divisa da grigio verde a grigio marrone con giubbino stile inglese ma sempre artiglieria.
Questo periodo di naja nonostante le preoccupazioni per la famiglia lo visse come un periodo felice. L’Italia era distrutta, ma l’entusiasmo dopo le sofferenze della guerra era comunque grande. Fu mandato a fare l’istruttore delle nuove reclute a Siena al C.a.r. di quella città. E si innamorò dapprima della città e poi dell’intera Toscana, della sua gente e della sua lingua. Si innamorò così tanto di questa città che in cuor suo si promise: se un giorno avrò una figlia femmina la chiamerò Caterina in onore di questa città così bella e ospitale. Fece altri 18 mesi di naja tra Siena, Arezzo, Firenze girando nel frattempo l’intera Italia in treno in quanto gli vennero conferiti i gradi di sergente e poi di sergente maggiore istruttore per l’esperienza maturata in guerra nel settore dell’artiglieria e come istruttore aveva compiti di addestramento delle reclute. Si spostava spesso in treno per accompagnare le reclute ed in quel periodo vide l’Italia rinascere. Si festeggiava, si ballava in tutte le piazze i soldati non erano allontanati ma inviatati a bere e a mangiare e c’erano inglesi, americani, neozelandesi, canadesi, marocchini persino indiani col turbante . Tutti assieme allegramente
Durante la naja cominciò a “discorrere” come si diceva allora con una ragazza di Maserà che si chiamava Giuseppina detta Beppina orfana di padre come lui ed ultima di quattro sorelle ed un fratello che era stato prigioniero in campo di concentramento in Germania durante la guerra ed era stato capace di scappare più volte e l’ultima volta fu uno dei pochi a fuggire da Dachau e ritornare a casa prima della fine della guerra perché conosceva il tedesco. Era l’ultima componente di una famiglia poverissima che era sopravvissuta alla guerra solo grazie agli aiuti dei parenti con una mamma alquanto anziana. Durante la guerra aveva imparato a fare la magliaia ed era come lui decisamente ottimista e piena di buona volontà.
Al nuovo ritorno dalla naja era però di nuovo disoccupato e perciò trovò, per un breve periodo, occupazione come operaio nella fabbrica di Cesare Rizzato al Portello ove si fabbricavano le biciclette. Come operaio della Rizzato partecipò alla prima edizione del Giro d’Italia dopo la guerra e conobbe di persona i campioni del ciclismo dell’epoca. Tuttavia non era contento di quel lavoro, secondo lui correva troppi rischi, all’epoca la cromatura si faceva a mano con bagni di acido davanti agli occhi e vedeva gravi incidenti tutti i giorni. “Sono sopravvissuto alla guerra” disse “e non voglio morire intossicato in tempo di pace” e così dopo poco si dimise dalla fabbrica. Il suo capo gli disse che era matto, in fabbrica avrebbe avuto lo stipendio sicuro.
Dato che era disoccupato ma fiducioso nel futuro si sposò nel dicembre del 1950 senza un lavoro lasciando la sua bella e grande casa colonica di Maserà ai fratelli e venne ad abitare a Rio “el peso paese che ga creà Dio” come si diceva al tempo perché a Rio conosceva un calzolaio benestante anche lui originario di Maserà che gli affittò un piccolo appartamento posto sulla via principale di Rio ossia via Cavour.
Per prima cosa cercò di valorizzare il lavoro della moglie comprandole a rate e firmando una sfilza di cambiali delle macchine nuove per maglieria. Alcune erano italiane altre tedesche e non avevano motori e dovevano essere azionate a mano. Non disponeva di altri spazi e quindi le macchine furono poste in cucina, in corridoio, in sala dappertutto. La casa in breve si trasformò in una maglieria su misura perché le maglie, i maglioni, le calze ecc. si facevano su misura del cliente con presa delle misure, prova, seconda prova, approvazione e consegna. Ben presto la Beppina si prese come apprendiste altre ragazze che volevano imparare a fare le magliaie e la casa divenne un vero e proprio laboratorio di maglieria.
Piero invece si inventò un altro lavoro. Lui aveva la passione del commercio. Aveva visto che Rio, Roncaglia e zone di Pozzoveggiani, Salboro non avevano il fornaio che consegnasse a domicilio. Si inventò allora la prima rivendita di pane a Rio con consegna a domicilio. Cosa che all’epoca non era molto diffusa nei vari paesi del padovano ma dopo le privazioni della guerra la consegna del pane fresco a domicilio era un lusso che le famiglie potevano permettersi.
Il “giro” come lo chiamava lui ebbe rapido successo perché lui selezionava il pane migliore e così dolci, focacce, pane con l’uva ecc. e lo recapitava a domicilio dapprima con una bicicletta con una cesta davanti ed una dietro e poi con un triciclo prima a pedali e poi a motore con una grossa cesta posta davanti al manubrio.
La rivendita di pane ebbe così successo che il negozietto in centro a Rio, preso in affitto, divenne subito troppo piccolo. Parlò allora con il padrone di casa e si accordò per costruire a fianco della casa laboratorio di maglieria una rivendita di pane.
Ma una nuova disgrazia stava per abbattersi su questa coppia. Nel 1952 arrivò il primo figlio cui posero il nome di Leone in onore dei proprietari terrieri che avevano dato la casa al padre e con i quali sia era stabilito un buon rapporto. Leone Da Zara era un filantropo e suo figlio Leonino da Zara fu uno dei primi aviatori italiani nonché scrittore, artista e cento altre cose.
Il figlio crebbe bello e sano pieno di maglie e maglioncini che la mamma e le sue ragazze gli confezionavano. A 18 mesi, come prescritto, fu portato a Ponte San Nicolò presso il medico condotto di allora per la vaccinazione antivaiolosa, fece la vaccinazione come si usava allora sul braccio ma alla sera partì subito una febbre grandissima ed il bimbo diede segni di squilibrio. Fu allora portato all’ospedale di Padova, ma già al mattino morì. Fu un bruttissimo colpo per la giovane coppia ed in particolare per la mamma, che non si riprese più da quel disastro. Il bimbo fu sepolto nel cimitero di Voltabarozzo perché per entrare nel Comune di Ponte San Nicolò bisognava pagare una tassa mi sembra che fosse il dazio.
La coppia si riprese con il lavoro. La Beppina a fare le maglie e Piero a consegnare il pane e mandare avanti la bottega del pane. Era piccolino sul “biroccio” ed allora cominciarono a chiamarlo per le varie strade di Rio, Roncaglia, Pozzoveggiani, 4 strade , “Piereto Fornaro” e questo soprannome nella sostanza non gli dispiaceva.
Dopo due anni dalla morte di Leone arrivai io presso l’Ospedale di Padova ed inevitabilmente mi chiamarono Leone cui il Parroco fece aggiungere anche Paolo perché nacqui il giorno dei Santi Pietro e Paolo, ma il padre già si chiamava Pietro e non si poteva mettere al figlio il nome del padre. In casa però la mamma mi chiamava Leonino forse per distinguermi da quel figlio che Lei immaginava già più grande.
Tre anni dopo arrivò un altro figlio con parto in casa stavolta, come si usava allora, con la levatrice comunale e i coniugi Barison lo chiamarono Tarcisio.
A proposito di vaccinazioni la mamma era giustamente ansiosa ma con coraggio sottopose i suoi figli a tutte le vaccinazioni possibili ed anche quelle allora non obbligatorie come l’antipolio, la rosolia ecc.
Il panificio ottenne però un crescente successo. Vi erano allora famiglie ancora patriarcali, che memori degli anni della fame avevano ripreso a guadagnare ed i primi soldi li usarono per mangiare meglio. E cioè pane bianco, biscotti, pasta, dolci, dolciumi ecc. e Piereto da un giro al giorno passò a due giri al giorno uno al mattino presto ed uno nel primo pomeriggio.
Ebbe allora bisogno della moglie che seguisse il negozio del pane abbandonando la sua attività come magliaia e così fece. Regalò le macchine della maglieria alle sue ragazze e chiuse la sua attività di magliaia e non ebbe difficoltà a fare il lavoro della cassiera del negozio perché fare la magliaia era stato un ottimo allenamento mentale di aritmetica in quanto bisognava continuamente fare operazioni di calcolo matematico di somme sottrazioni e moltiplicazioni. Solo molto più tardi io piccolino capii che quelle frasi che sentivo in casa, scalo uno, scalo cinque, aggiungo sette, tolgo cinque, moltiplico per due altro non erano che i calcoli continui che bisognava fare per seguire la macchina mentre si tirava il manico sopra tutta una serie di aghi ricurvi ove veniva fatto scorrere il filo di lana per fare la maglia. E non c’erano calcolatrici bisognava fare tutto a mente.
Allora Piereto Fornaro seguiva la vendita a domicilio del pane e gli altri prodotti del forno e la moglie seguiva il negozio con qualche ragazza che le dava una mano e seguiva la famiglia, la casa ed i figli.
Così io dapprima mi dividevo tra il laboratorio di maglieria ove ero la mascotte delle ragazze che vi lavoravano ed il panificio ove ero altrettanto la mascotte. Ma a tre anni andai subito alla scuola materna a Voltabarozzo perché a Rio non c’era la scuola materna e mi portavano a scuola in bicicletta.
Il lavoro del fornaio era però molto duro estate ed inverno Piereto lavorava molto duro ed allora si lavorava anche alla domenica perché c’era il pane fresco anche la domenica da distribuire e così pensò di avviare poco più avanti del panificio una nuova attività di rivendita di prodotti per l’agricoltura ed un piccolo mulino. Anche questa attività andò bene perché memore delle sue esperienze Piereto Fornaro recapitava a casa dei clienti i prodotti, in genere molto pesanti, come mangimi per gli animali, concimi sementi, attrezzi. Inutile dire che anche in questo caso la moglie lo aiutava facendo la cassiera senza registratore di cassa, o calcolatrice. Tutto a memoria, ma era abilissima e precisa. Chiacchierava ma contemporaneamente con più clienti osservava il peso, il numero dei colli, faceva le somme , incassava e dava il resto tutto in sequenza senza incertezze ed in velocità.
Il lavoro del fornaio era però molto duro ed allora Piereto Fornaro decise di diversificare aprendo un “consorzio” ossia un negozio che vendeva le farine, le sementi, i mangimi per gli animali e tutti i prodotti per l’agricoltura e l’orticoltura. In una zona vicina alla bottega del pane comincio quindi la costruzione della sua casa con al piano terra il magazzino dei prodotti agricoli. E la moglie dismessa l’attività di magliaia gli dava una mano facendo la commessa del negozio. Aveva anche qualche facchino che gli dava una mano.
Ma una nuova tegola si abbatta su questa famiglia. La mamma facendo il bagnetto al terzogenito Tarcisio si accorgeva che il bambino toccandogli un punto ben preciso del costato piangeva. Capì immediatamente che c’era un problema e portò il bimbo al pronto soccorso ove giunse debolissimo. Gli fu diagnosticata una grave infiammazione acuta tra le costole ed i polmoni e pertanto fu subito operato e curato con forti dosi di penicellina ed il bimbo con circa un mese di cure si salvò.
Pochi anni ani dopo nacque la sua prima figlia e mantenendo la promessa fatta dopo la guerra nel santuario senese la chiamò Caterina. La mamma era felicissima finalmente una femmina in casa.
Il figlio maggiore fu mandato alla scuola materna di Voltabarozzo perché Rio non aveva la scuola materna e la prima elementare la fece a Rio. La classe era numerosa e secondo quanto narrava la mamma era anche problematica. Bambini che piangevano, ripetenti di vari anni , metodi educativi alquanto sbrigativi a suon di schiaffi, il cappello dell’asino, il banco dell’asino ecc. La mamma non era contenta perché non vedeva compiti a casa fatti con regolarità, quaderni di bella scrittura con le zampe di gallina ecc. Chiese allora di andare a parlare con la maestra. Incontrò la maestra al termine di una lezione ed allora le chiese: Secondo lei come va il mio ragazzo a scuola?
Rispose la maestra: Benissimo! è uno dei più bravi, impara subito le poesie
Ed allora come mai scrive come una gallina? – disse la mamma
Scrive come una gallina perché diventerà un dottore – rispose la maestra.
Ha mai visto come scrive un dottore? – proseguì la maestra.
La mamma tornò a casa molto arrabbiata e a seguito dalle risposte ottenute dalla maestra mi disse: Altro che dottore. Tu quest’estate vai a ripetizione da una maestrina qui a Rio che si è appena diplomata e poi l’anno prossimo vai a scuola a Padova dalle suore Salesie.
E così fu! Sveglia col buio, biciclettina sino Salboro lungo la strada non asfaltata e poi l’autobus sino a Santa Croce, doposcuola e ritorno al pomeriggio.
Il secondogenito invece fu iscritto alla scuola materna di Salboro perché il papà era più comodo a portarlo al mattino ed andare a riprenderlo al pomeriggio. Quando frequentai la quinta elementare ero già così autonomo che mi fu affidato anche il fratellino più piccolo da accompagnare a scuola sin dalla prima elementare . Entrambi andavamo a scuola a Padova dalla Suore che gestiscono le scuole materne ed elementari vicino Corso Vittorio Emanuele.
Nel 1964 aderendo ad un pressante invito del Sindaco uscente Giovanni Bezzon, Piereto Fornaro si candidò alle elezioni comunali come consigliere comunale ed ottiene un bel successo elettorale concentrato soprattutto nella frazione di Rio. Sono anni moto duri ma pieni di realizzazioni anche in campo comunale . In quegli anni si avvia la scuola media unica, si comincia a parlare di acquedotto si comincia ad asfaltare qualche strada, si sistemano le scuole. Ma non è facile sino al 1960 la maggioranza dei residenti erano iscritti all’elenco dei poveri e quindi non pagavano tasse. E poi alla fine del 1966 la famiglia mandò il sottoscritto in Collegio a Legnago in provincia di Verona dai padri Salesiani perché le scuole medie a Padova non mi prendevano perchè ero “di fuori comune” e la media a Ponte San Nicolò era appena partita.
Nel novembre del 1966 il Comune di Ponte San Nicolò fu alluvionato con la rotta del Bacchiglione ed allora Piereto con il Sindaco Bezzon e con tutta la Giunta ed i Consiglieri si prodigarono dapprima nel soccorso con quel che si aveva e poi nella ricostruzione delle zone colpite. Fortunatamente non vi furono vittime, ma soprattutto Ponte San Nicolò capoluogo e Roncajette riportarono molti danni.
Piereto a quell’epoca dormiva due, tre ore per notte ma poi dormiva un’ora tra le due e le tre del pomeriggio sopra i sacchi di frumento o di farina dove capitava e poi ripartiva. Alla sera dopo le 9.00 c’era spesso il Consiglio Comunale e sebbene stanchissimo lui non mancò mai alle varie sedute e per questo fu nominato capogruppo del gruppo della Democrazia Cristiana che allora governava da sola il Comune.
Come aveva fatto con il pane Piereto si era comprato un furgone Volkwagen per consegnare a domicilio i prodotti per l’agricoltura seguendo la nuova attività. Seguì così tra trasformazione dell’agricoltura e dell’allevamento del bestiame nella nostra zona da attività lavorativa ad attività integrativa di altri lavori ed infine ad attività puramente ricreativa e di affezione. Così fu per la coltivazione dell’orto dapprima attività redditizia e poi attività hobbistica fatta come tempo libero e piacere personale derivante dalla coltivazione dei propri prodotti.
Il suo segreto era il servizio al cliente prima del prodotto. Metteva la sua cultura contadina e da autodidatta a disposizione di tutti. Fu un grande appassionato dell’allevamento degli animali ed allora si mise a vendere pulcini, galline ovaiole, oche, anitre, faraone, tacchini, quaglie e conigli. Studiò le miscele più giuste per l’allevamento bovino che negli anni ‘50 e ‘60 non erano ancora conosciute .
In tutto questo fervore di attività trovò anche il tempo durante l’inverno di partecipare ad una piccola filodrammatica di paese che metteva in scena drammi di un certo impegno e che recitava per beneficienza soprattutto per sostenere la costruzione della nuova scuola materna di Rio.
Di tre figli nessuno ha proseguito il suo lavoro, ma il negozio esiste ancora ed è oggi condotto dalla famiglia di Giuseppe Massaro che in pratica ha proseguito con gli aggiornamenti del caso le orme di Piereto Fornaro.
Piereto Fornaro avrebbe voluto che almeno un figlio continuasse la sua attività ma ciò non avvenne, ma anche se non lo disse mai a nessuno, sotto sotto, era però orgoglioso del fatto che tutti i suoi figli si fossero laureati in discipline diverse anche se non avevano proseguito la sua attività.
Andando di casa in casa a consegnare i prodotti per l’agricoltura per 60 anni ne ha viste di tutti i colori. Dal toro scappato dalla stalla e non c’era a casa nessuno per andarlo a riprendere, alla donna che improvvisamente aveva le doglie del parto e chiedeva di essere accompagnata subito all’ospedale, all’incontro con i ladri al mattino presto carichi di pollame, ad una famiglia che si converte ad una nuova religione e sotto il portico organizza ogni settimana una recita evangelica e lui scaricava i sacchi in mezzo ai re magi, alle liti furibonde tra fratelli nelle famiglie contadine. I suoi luoghi erano Pozzoveggiani, Salboro, Guasti, 4 strade, Rio, Roncaglia , Ponte , Voltabarozzo, Roncajette. Dal suo osservatorio ha assistito alla trasformazione residenziale del nostro paese con l’abbandono progressivo dell’agricoltura intensiva e da reddito ma nel contempo intuisce che si può fare qualcosa seguendo il progresso verso la qualificazione, la particolarità, l’eccezionalità delle produzioni agricole ed organizza anche i corsi per gli agricoltori in tutte le direzioni. Uso corretto degli anticrittogamici, dei diserbi, degli insetticidi e dei concimi anticipando così la cosiddetta agricoltura biologica.
Piereto aveva una salute di ferro e per tanti anni fu anche un discreto fumatore e quando la moglie o il medico lo consigliarono di smettere lui rispondeva : “smetto quando voglio” Ed in effetti poco dopo i cinquanta anni quando il fumo gli procurò delle bronchiti smise immediatamente di fumare ma alla distanza il sistema vascolare ne risentì e dopo qualche decennio il fumo presentò il suo salato conto. La carente dilatazione delle vene causata dal fumo gli causò diversi problemi circolatori.
Ha fatto sempre parte dell’Associazione Combattenti e Reduci e si è sempre tenuto in contatto con un suo compagno di fuga da Villa Opicina che abitava a Villanova di Camposampiero e per tutta la vita ha sempre cercato notizie sui suoi superiori e sui commilitoni che erano rimasti sulle batterie davanti il golfo di Trieste ma non ne ha mai avuto. Ci sono notizie sul suo capitano riparatosi a Trieste fino al maggio del ‘45 e poi nulla, non si sa che fine abbia fatto. Visto quello che è successo a Trieste in quei 40 giorni di occupazione si può facilmente immaginare cosa sia successo.
Piereto Fornaro è morto improvvisamente il 9 gennaio del 2013 pochissimi giorni dopo aver compiuto il 3 gennaio ottantotto anni dopo un disperato intervento chirurgico fatto per ovviare ai problemi cardiocircolatori che accusava da tempo.
Leone Barison