Prendo la bicicletta e vado a bruscandoli verso Roncajette! Lungo le strade non ne trovo perchè i bordi oggi vengono sistematicamente tagliati ed il bruscandolo ha bisogno di luoghi incolti per poter crescere.
Giunto però nei pressi di una bella casa colonica, che un tempo chiamavamo dei “massarioti” trovo quello che cerco. Bruscandoli dappertutto perché la casa è in abbandono da anni, il giardino che si affacciava sulla strada è praticamente inesistente e crescono solo erbe spontanee mentre lungo la rete di recinzione ci sono bruscandoli come se piovesse. Mi metto allora a raccoglierli ed in un lampo riempio il cesto della bicicletta, allora mi fermo un po’ e…. mi prendono i ricordi. Chiudo gli occhi e la mente corre alle tante volte che in questa casa e a questo palazzo ci sono stato, da bambino e da ragazzo assieme a mio padre. I cancelli sono chiusi ma basta spingere un poco e si aprono, entro e vado verso la facciata della casa, che guarda a mezzogiorno. Si intravede in mezzo alle erbacce l’aia, ossia l’ara ancora intatta fatta di mattoni rossi el seese fatto di pietra dove si metteva a seccare il grano, dove si battevano dopo la raccolta i fasoi col batauro, ove si trebbiava il grano coe crosette e dove le donne si mettevano a lavare i panni coe mastee e facevano con la cenere ea issia. Alzo lo sguardo e vedo l’enorme portico ancora bello, alto, diviso in due parti sopra e tese e sotto e stae. La stalla delle mucche e la stalla dei cavalli o del musso. Sulla destra c’è ancora la porta della grande cucina vuota. La porta è praticamente aperta e la grande cucina è vuota sì, ma io la vedo animata e piena di gente. Vedo ea parona de casa che normalmente era seduta in fondo alla cucina, che si alza e mi viene ad incontrare. Questa famiglia è sempre stata molto ospitale ed accoglieva tutti. Mi ricordo che sopra la cucina economica piazzata accanto al fogoearo c’era sempre una pentola, che bolliva lentamente con la minestra di fagioli sempre pronta. Allora la parona si avvicina e mi dice: «Ciao bel toso la vuto na scuea de minestra de fasoi?».
Io mi schermisco e rispondo: «Grazie parona come accettato ma oggi fa caldo e ea minestra de fasoi me fa vegnere ancora più caldo».
«Ma no! – risponde lei con calma – la minestra de fasoi xe bona anca freda».
Così la accontento e le rispondo: «Va ben dame sta scuea de minestra e la lassemo sorare».
Allora mi riempie la scuea col menestro ed aspetto, che la minestra si raffreddi prima di assaggiarla.
Nel frattempo sono circondato da ragazzi e ragazzine che giocano e si rincorrono giocano a tegna alta, a tegna bassa, sotto al portico giocano a cuco o con un pallone sgonfio, galline, oche ed anatre che razzolano libere un po’ dappertutto. Dentro la cucina ci sono le sposette impegnate ognuna in un diverso lavoro domestico. Su un canton vicino al fogoearo c’era e lo rivedo un gancio ove si appendeva la secia dell’acqua ed era compito proprio di una delle sposette ed in genere era la più giovane o l’ultima arrivata a sorvegliare el secio e quando calava l’acqua nel secchio, doveva andare al pozzo a prendere l’acqua fresca. Dentro la secia c’era sempre el menestro, che serviva per bere o per prendere l’acqua da usare continuamente in cucina o per lavare le pentole ed i piatti con le scodelle. Non c’erano infatti i rubinetti dell’acqua né in cucina né in casa.
In quel momento non c’era el paron de casa, perchè in genere el paron grosso era sempre impegnato nei campi o fuori casa con la biga. Andava spesso al mercato per fare gli affari, comprare e vendere le mucche, il vitello, el porseo, la paglia ed il fieno che erano indispensabili, el semoeo ed i cascami del grano, le polpe della barbabietole da dar da mangiare alle mucche, al maiale, al cavallo, ai polli ecc. Ma io sentivo le loro voci. C’era in fatti el paron de casa che era anche el pare, ma era anche me barba, me missiere, xerman e c’erano poi i fioi e ea mare, e e nore, e i parenti streti e i parenti ae larga. La casa li accoglieva tutti e tutti nella famiglia contadina avevano un ruolo ed un lavoro da svolgere, anche i più piccoli. El paron de casa era severissimo ed in genere parlava poco ma quando parlava tutti lo rispettavano e lo temevano. Aveva sempre el capeo in testa e non se lo toglieva neanche se si sedeva a tavola e aveva do bafi da fare paura.
Entro mi siedo a lato della grande tavola e comincio allora ad assaggiare la minestra di fagioli, che è una delizia! Ha tutti i gusti, mi sembra addirittura cioccolato fondente!
Dentro la cucina c’erano pochi mobili ea crendensa con dentro i piati e i goti, el cantonae, ea toea e accanto alla grande tavola, c’era una tavola più piccola, che veniva detta ea toea dee femane, perchè su questa tavola mangiavano le donne di casa, con i loro bambini, tra le quali c’era sempre quella che allattava, che si sedeva solo per un po’ perché poi doveva anche seguire el caliero dea poenta, el fogoearo. E la polenta fortunatamente in questa famiglia di massariotti ma anche di grandi lavoratori, non è mai mancata, nemmeno in tempo di guerra, mi ha detto mio papà. Anzi la loro generosità era così grande, che se uno aveva fame andava da loro ed una fetta di polenta ed un piatto di minestra de fasoi lo trovava sempre.
L’impegno di seguire il fuoco era un impegno serio, bisognava sempre alimentare il fuoco sul focolare, procurare la legna, e fassine, far bollire l’acqua sul caliero e poi gettare a poco a poco la farina bianca de formenton, che doveva prima essere stata macinata al mulino e poi burattata, ossia setacciata con el criveo da poenta. Bisognava essere brave a versare la farina, altrimenti la farina se ingrumava e la polenta veniva cotta male. Solo la vecia sapeva quanto sale aggiungere all’acqua. Le nore in genere sbagliavano sempre e la polenta risultava sempre massa saeà o sensa sae. Le spose le sbaliava sempre allora la nora addetta alla polenta al momento del sae chiamava la parona a versare el sae. Mi ricordo ancora il grido della incaricata che si puliva le mani dalla farina sulla traversa, usciva sotto il portico e gridava: «Madona vegnì a saeare ea poenta!». La parona allora abbandonava quello che stava facendo e si recava in cucina, prendeva il sale grosso, lo esaminava per bene, guardava l’acqua e se bolliva bene e solo allora, decideva la quantità di sale da gettare nell’acqua. A quel punto la sposetta cominciava a versare la farina. Ed attenzione! Il rito della polenta si ripeteva due volte al giorno. La polenta doveva essere pronta per mezzogiorno esatto e per la sera, bolliva sul fuoco almeno per un’ora. La cena variava come orario seguendo le stagioni, d’inverno si cenava presto e poi si faceva el filò, mentre d’estate si lavorava nei campi fino al calar del sole e quindi non restava più tempo per el filò. Cotta la polenta la sposa addetta con l’aiuto di un’altra ragazza prendevano el caliero per il manico, lo staccano dalla caena e versavano la polenta fumante sul tavoliero, in attesa del pranzo.
Come la polenta era un rito, pure il pranzo era un rito. Ricordo che a mezzogiorno in punto la vecia faceva cenno ad un figlio, che il pranzo era pronto ed allora gli diceva: «Xe pronto va ciamare i omeni!». Allora il figlio in genere il più piccolo immancabilmente tutti i giorni si recava da cao ai campi e con quanto fiato aveva in gola urlava: «Pare vieni spartisare el darico che ea poenta xe udee!». Se il padre o i figli impegnati nei lavori sentivano si passavano la voce ed allora giravano i buoi, lasciavano il lavoro nei campi e si avvicinavano alla casa per il pranzo. Il padre allora si lavava le mani andava in cucina, faceva la croce di benedizione sopra la polenta e faceva le parti, ossia divideva quel che c’era, la polenta, il radicchio (el daricio), non c’era infatti molto altro da dividere tra i vari figli. Essi a loro volta davano il cibo ai figlioli più grandicelli, in genere dopo i dieci, dodici anni, perchè prima i piccoletti mangiavano con le loro mamme o con la zia. C’era sempre infatti in casa una sorella maggiore o una zia, non sposata e che si occupava dei bimbi più piccoli “nati in casa “.
Così ogni giorno a mezzogiorno in quella famiglia si alzava il grido, sempre quello: «Pare viene spartisare ed daricio, che ea poenta xe udee!». Non so se la frase fosse detta in un dialetto antico o meno, il fatto è che ogni famiglia patriarcale, oggi si direbbe ogni comunità sviluppata, anche un proprio linguaggio ed una propria cucina. C’era infatti anche un metodo diverso da famiglia a famiglia per legare e scoe de vesta e de erica, de impaiare e careghe, de fare i sbalsi, de tacare el cavaeo aea careta, de fare i rostei per roseare el fen, de fare e fritoe de carnevae e tanto altro. E ciò perchè molti degli attrezzi per il lavoro nei campi, venivano prodotti in casa e tutta la cucina si faceva in casa tramandandosi gli insegnamenti tra le generazioni, compresi gli attrezzi.
Sopra la tavola c’era el ciaro a petrolio, che chiamavano el canfin. Bisognava riempire il serbatoio prima dell’accensione, accenderlo ad una certa ora e tenere regolato el stopin durante le ore di accensione per poi spegnerlo prima di andare a letto. La luce del canfin era sempre una luce fioca e ballerina, la cucina era buia e nera e si vedevano sui muri tante ombre, che a volte si muovevano come nel teatro delle ombre. Bastava toccare el ciaro o passargli davanti ed ecco che le ombre si materializzavano. Le ombre spaventano sempre i bambini, che hanno sempre paura del buio e sollecitavano le fantasie dei grandi a raccontare le storie più strane e misteriose su quelle ombre, che passeggiavano per i muri della cucina specie di sera.
In questa famiglia anche se oggi la casa è vuota perché è cambiata l’agricoltura così come è cambiata la famiglia, di bimbi ce ne sono sempre stati tanti e si diceva: «Ogni boceta riva co ea so sacheta». Per dire, che ogni figlio è una ricchezza ed ogni figlio ha già il suo corredo.
Ecco la famiglia, che qui abitava era generosa con l’ospite, generosa coi bambini e generosa si rivelò anche in tempo di guerra, tanto da rischiare persino la vita di tutti, in quanto ospitò dopo l’otto settembre del 1943 non uno, ma ben due aviatori inglesi, che erano prigionieri a Ponte San Nicolò nei campi dell’allora tenuta Montesi. Con l’otto settembre ed il disfacimento dell’esercito italiano i prigionieri inglesi si trovarono all’improvviso senza sorveglianza e per paura di finire nelle mani dei tedeschi, si rifugiarono nella case in attesa della risalita dell’esercito alleato. Sembrava allora, che si trattasse di poche settimane ed invece l’attesa durò oltre diciannove mesi. In fretta e furia sotto al pagliaio, sotto il letamaio si scavarono allora delle camere, ove si nascosero i prigionieri. Uscivano per mangiare solo a notte inoltrata e sempre di notte si ascoltava Radio Londra. Molti furono i prigionieri nascosti nella nostra zona tra Rio, Roncajette, Pozzoveggiani, Salboro e molte furono anche le perquisizioni ed i rastrellamenti subiti, ma fortunatamente sempre senza esito perché la popolazione in genere proteggeva i prigionieri.
Esco dalla cucina e vado anch’io verso i campi e li vedo ora vuoti, mal coltivati, il vigneto orami è caduto a pezzi, le piante dei morari sono diventate enormi perchè non più potate, erbacce altre due metri sulle caresà, fossi in abbandono totale e ti domandi se possano ancora servire a far scolare l’acqua.
Mi sono fermato da cao dei campi ed ho allora gridato anch’io:
PARE VIENI SPARTISARE EL DARICIO CHE EA POENTA XE UDEE!!!
Ho aspettato ma nessuno ha risposto!