Cent’anni fa finiva vittoriosamente per l’Italia la prima guerra mondiale ma il paese era distrutto e alla fame. Nel centenario della Vittoria ho seguito se strazianti storie dei sopravvissuti. Il Comune di Ponte San Nicolò che all’epoca contava circa tremila abitanti ha avuto 58 morti in guerra senza contare i feriti senza contare gli orfani e le vedove, senza contare che molti sono morti a causa delle ferite in seguito alla guerra. E dopo la guerra l’epidemia di spagnola fece più morti della guerra. L’influenza spagnola infatti si diffuse nel 1918 e colpì moltissimo anche il sud Italia facendo, nel complesso tanti morti quanti ne aveva fatto la guerra.
Mi sono allora immedesimato anch’io in cosa potesse aver provato un povero ragazzo arruolato nell’esercito magari a diciotto anni e mandato a combattere al fronte.
Io fortunatamente non ho fatto questa esperienza e appartengo alla prima generazione europea che non ha visto in Europa la guerra. Anche se la guerra non ha mai del tutto lasciato l’Europa, vista la triste vicenda dell’ex Jugoslavia e dei massacri avvenuti a due passi dai nostri confini dal disfacimento di quel paese dopo la morte del maresciallo Tito. Però in piccolo ho vissuto anch’io una storia da “C’era un ragazzo che come me, amava i Beatles ed i Rolling Stones”.
Avevo rinviato il servizio militare di leva dal maggio del 1974 perché studente. Ma nel 1979 ossia a 24 anni mi laureai in giurisprudenza a Padova e venne quindi meno il motivo del rinvio.
Cominciai subito a fare la pratica di avvocato presso un avvocato famoso, ma nel frattempo lavoravo a casa ed insegnavo come precario all’Istituto Tecnico Commerciale. Ogni mese mi recavo al Distretto militare per sapere se dovessi o meno partire ma non ottenevo mai una risposta sicura. Mi ero quasi illuso che ormai non mi avessero più chiamato, quando un sabato mattina di luglio del 1981 di buon’ora mia mamma mi butta giù dal letto dicendomi che dovevo assolutamente andare subito alla caserma dei Carabinieri di Legnaro perché mi stavano cercando.
Mi vesto in fretta e vado a Legnaro e trovo il Comandante, che mi annunciava di aver ricevuto l’incarico di consegnarmi la cartolina precetto, con l’ordine di presentarmi immediatamente a Roma alle Scuole della Motorizzazione alla Cecchignola, perché non c’era il tempo di spedirlo per posta.
Vado a casa con l’improvvisa notizia e mi manca anche il tempo di salutare parenti e gli amici mi faccio la valigia e vado a farmi il biglietto per Roma parto l’indomani presto ed arrivo a Roma il mattino del 5 luglio di domenica. Per arrivare alla città militare della Cecchignola bisogna prendere la metropolitana poi un autobus e poi farsi anche un tratto a piedi.
Metto finalmente piede in caserma e quando mi si chiude il cancello alle spalle ho un brivido per la schiena: mi sembrava di essere entrato in prigione.
L’accoglienza fu pessima per dirla con un eufemismo. Il piantone alla carraia mi prese in consegna alquanto burbero e attraversando cortili pieni di soldati che correvano avanti ed indietro o che marciavano apparentemente senza logica mi accompagnò al comando. Qui incontrai un capitano che invece di parlare urlava tanto che pensai fosse sordo o sordastro. Mi sarei aspettato un minimo di saluto dopo 9 ore di viaggio e di spiegazioni sulla caserma o sul servizio militare invece nulla tutto un urlo e non riuscivo a capire per quale motivo urlava ed inveiva anche in romanesco verso di me. Finalmente capii che mi rimproverava perché ero arrivato in ritardo e mi voleva anche punire per questo motivo. Capii a fatica in mezzo agli urli che gli altri miei compagni erano arrivati il 2 luglio mentre io arrivavo solo il 5 luglio ossia con tre giorni di ritardo. Tentai di rispondergli ma non mi fu possibile: Mi disse “Silenzio lei quando parla come me, deve stare zitto!” Allora con i dovuti modi mi ricordai che in borsa accanto ai biglietti avevo la cartolina che mi aveva consegnato il maresciallo di Legnaro. La tirai fuori e senza parlare gliela feci vedere indicando con l’indice della mano destra la data nella quale l’avevo ritirata. Riuscii ad aggiungere una sola parola: “Ieri”.
Lui tutto infastidito smise di urlare e troncò il monologo urlato e mi disse: “subito dal barbiere e poi alla vestizione”. Chiamò un “anziano” ossia un allievo della scuola militare che aveva iniziato a gennaio e mi fece accompagnare dal barbiere. Data la partenza improvvisa non avevo avuto la possibilità di andare dal mio barbiere ed avevo i capelli molto lunghi e ricci come si usava all’epoca con anche un bel filo di barba. Il barbiere era anche lui un militare, che nel gergo mi disse la mia guida chiamavano Kociss ed occupava una stanza gelida e squallida al piano terra, vicino alla palazzina giallastra del comando. La guida mi lasciò sulla porta ridendo e Kociss mi accolse con un fare ironico. Mi disse: “Che bei capelli! come vuole tagliarli? Vuole una spuntatina? “. Capii subito, dato il contesto, che mi stava canzonando e provocando. Allora rimasi in assoluto silenzio. Neanche il tempo di mettermi un cencio lurido attorno al collo che si avventò con un rasoio a mano sulla mia capigliatura e mi rasò a zero. Non c’era nemmeno lo specchio e su un attimo Kociss mi congedò dicendomi: “La barba te la fai da solo appena arrivi in camerata perché con quella barba prendi subito tre giorni di consegna al primo ufficiale che incontri “.
Tornò l’anziano di prima a prendermi in consegna mi portò in un altro magazzino lurido tutto pieno di scatoloni ove incontrai un Maresciallo napoletano piccolo di statura e silenzioso che parlava pianissimo ed in napoletano stretto, che avevo difficoltà a capire. Mi consegnò subito uno zaino in tela che puzzava da vecchio ed un altro zaino in tela con delle stecche dette squadra-zaino che non avevo mai visto in vita mia e che doveva servire per valigia. Mi consegnò della camicie, una giacca , due tute mimetiche, tre paia di calzini di cotone due paia di lana, le mutande tattiche, un astuccio per inserire un piccolo pennello da barba, due rasoi usa e getta, una saponetta, il cinturone, gli spallacci ed infine un paio di scarpe nere ed un paio di anfibi in cuoio duro ed ammuffito e suola in gomma con rinforzi in metallo. Mi disse: “provali perché ormai di anfibi ne ho pochi speriamo ti vadano bene”. Li provai mi facevano male da tutte le parti ma gli dissi ugualmente che andavano bene perché lui insisteva a dirmi che li dovevo ingrassare e poi battere tanto finchè si ammorbidivano e si allargavano.
Presi tutta la mia roba andai in camerata con un altro anziano che mi venne a prendere in consegna, era vestito coi pantaloni della mimetica, una maglietta verde oliva, il cinturone e la baionetta alla cintura. Mi accompagnò in camerata e mi disse che la mia camera era la prima a sinistra. Trovai l’unico letto nuovo con il materasso alzato fatto a cubo e non ci fu tempo per fare il letto o sistemare la roba ed allora misi tutto alla rinfusa dentro un piccolo armadietto in ferro ed in compagnia della mia guida uscimmo. Sulla porta trovammo il piantone alle camerate, che mi accolse finalmente con un sorriso dicendomi: “di dove sei?” “Sono padovano.” Rispose “Ah! Un altro montanaro!” Rimasi un po’ perplesso, non so se si poteva rispondere o meno ed allora aggiunsi: “Si ,si! Ma de laguna”. Il piantone non mutò minimamente le sue conoscenze geografiche.
La mia guida, a questo punto, mi disse che per ogni spostamento all’interno della caserma bisognava andare di corsa altrimenti saresti stato punito. Vietatissimo camminare bisognava andare sempre di corsa per qualsiasi servizio.
Venni allora di nuovo prelevato e di corsa con il mio anziano che scandiva uno… due, uno… due portato al Comando ove mi fecero le foto, mi fecero la tessera di riconoscimento e la piastrina da attaccare al collo e poi mi accompagnarono in infermeria. Qui incontrai un medico in camice bianco dai modi insolitamente gentile ed educati per il posto che mi disse: “ dovrai fare tutta una serie di vaccini ma al momento non so la data ed in ogni caso tutto il 104° corso sarebbe stato vaccinato”.
Salutai e mi diressi sempre di corsa verso il refettorio. Arrivati alla porta il mio anziano mi gridò : Squadra alt ! Un, due e li sull’ingresso ci fermammo lui nettamente ed io in modo in po’ buffo e goffo ed allora costui gridò: “Segnare la corsa!” Allora cominciai ad alzare le ginocchia come nella corsa e dopo alcuni istanti di nuovo gridò: “Squadra alt! Uno… due”. Stavolta mi fermai meglio allora entrammo nel refettorio e per la prima volta vidi i miei commilitoni seduti sulle panche dei tavoli. Molti si girarono a guardare il nuovo arrivato e l’anziano che mi accompagnava disse forte “Un galletto padovano “.
Mi si avvicinò il mio capocameretta, anche lui napoletano e mi disse: “Anche se sei appena arrivato domani alle sei devi andare alle cucine perché sei NCC “. Chiesi ma cos’è questo NCC. Rispose lui: “Nucleo controllo cucine”. “E cosa bisogna fare?” chiesi sommessamente. Lui mi spiegò molto sbrigativamente: ”Devi dare una mano ai cucinieri e soprattutto lavare le pentole”.
Cominciai a cenare anche se il sole era alto all’orizzonte e faceva ancora molto caldo. La cena era minestra con la pastina, bistecca impanata, patate, biscotti e acqua. Ma la giornata non era ancora finita.
Dopocena vidi che alcuni andavano in camerata a cambiarsi perché avevano la libera uscita, io non sapevo nemmeno dove erano le camerate. Mi feci accompagnare alla mia camera, ma non si poteva fare il letto , non ci si poteva spogliare bisognava stare in divisa fino al contrappello di mezzanotte e solo dopo si poteva fare il letto ed andare a dormire… sempre se ci riuscivi. La cameretta era fatta da 8 letti a castello da tre letti ciascuno e 8 armadietti in ferro a tre porte posti tra un letto ed un altro, senza riscaldamento e con i bagni e le docce in comune nel corridoio.
Aspettammo la mezzanotte ed il cosiddetto contrappello in piedi in mezzo ad una bolgia c’era chi urlava chi segnava la corsa perché costretto, chi urlava il suo nome decine di volte e chi era costretto ad infilarsi gli anfibi e correre su e giù per il corridoio.
Finalmente arrivò il contrappello composto da un ufficiale e due allievi ufficiali più vecchi di naja del mio corso. Fu subito fatto silenzio e l’ufficiale fece un brevissimo controllo su ogni cameretta ed alla fine del controllo disse: “Buona notte!” A quel punto scese un silenzio irreale e nessuno si azzardò più a fare il minimo rumore. Si poteva disfare il cubo ma con attenzione perché la mattina successiva il cubo doveva essere rifatto e alla svelta in modo perfetto con gli angoli perfettamente squadrati e con lo stemma dell’esercito stampato sul copriletto perfettamente in vista al centro del cosiddetto cubo ossia materasso piegato coperte e lenzuola perfettamente piegate ed appoggiate al materasso e copriletto che copriva il tutto perfettamente allineato a quello di tutti gli altri letti. Le camere dovevano poi essere pulite senza un granello di polvere senza cose fuori posto senza oggetti e scarpe per terra sotto pena di giorni di tabella. La tabella era una lavagnetta con il nome dei puniti chi ci finiva dentro saltava la libera uscita e perdeva anche il permesso o la licenza alla fine della settimana.
Andai a letto tutto indurito dall’incredibile giornata e sognai la ragazza che non avevo più sentito, la mamma e il fiume Bacchiglione ove andavo a leggere un bel libro in santa pace.
Al mattino seguente sveglia all’alba e già faceva un caldo incredibile. Il mio capocameretta mi disse appena chiamano l’adunata tu che sei padovano fagli il verso del gallo. Io mi preparai con la mimetica, gli anfibi ecc ed appena urlarono: “Adunata 104” allora feci il canto del gallo che nel gergo doveva anticipare l’alba dell’ultimo giorno di naja. Feci benissimo il verso del gallo e dalle vicine camerette di quelli più vecchi partirono immediati gli sfottò. “Bravi bravi” – ci dissero – “545 giorni all’alba. Ma quando vi passano Dovete morire!”.
Ed invece passarono tutti ed anche tanto rapidamente.