Mi sono imbattuto in questa parola mentre ero intento a sorbire un caffè in un bar di Marostica e intanto, per far passare il tempo, scorrevo con l’occhio i titoli di un giornale locale. Incuriosito dal termine inusuale bevvi in fretta l’ultimo sorso dalla tazzina e inforcai gli occhiali. Parola triste questa del profugato che solo a pronunciarla evoca immagini di abbandono forzato dalle proprie case e dalle proprie cose, lunghe teorie di carri con sopra le povere masserizie di ogni giorno, bestiame impaurito ed affamato costretto a dormire all’addiaccio, anziani e infermi portati via a braccia e poi… lacrime, tante lacrime mandate giù in silenzio, come ben sanno i nostri fratelli Istriani, che l’hanno sperimentato sulla loro pelle alla fine della seconda guerra mondiale.
Ma l’articolo cui facevo cenno, però, si riferiva non alla seconda bensì alla prima guerra mondiale e riguardava il paesino di Cismon del Grappa, in Valbrenta. Dunque, siamo nel novembre del 1917, ad un anno esatto dall’armistizio vittorioso che sarà firmato a Villa Giusti il tre novembre 1918, ma intanto sui monti di Cismon gli austro-ungarici hanno “rotto” le nostre linee e stanno per dilagare giù, verso la pianura veneta. Bisognava scappare. Tutti. E subito. Il parroco fu svegliato nel cuore della notte e portato di gran fretta in Municipio davanti al generale Donato Etna. Ordine tassativo: il paese doveva essere evacuato entro poche ore, la mattina stessa all’alba. Furono suonate per una buona mezz’ora le campane a martello, come ancora si usa nelle calamità naturali, un suono lugubre, straziante, che riecheggiò di valle in valle seminando angoscia. Udendo quei rintocchi lamentosi la gente assonnata e incredula si domandava cosa fosse successo, passava di casa in casa un richiamo affannoso di voci allarmate, rimbalzavano ordini scomposti di soldati in ritirata sulla strada bianca illuminata dalla luna, il muggito degli animali riluttanti a lasciare il caldo delle stalle aggiungeva ansia alla disperazione. Era la mattina del 5 novembre 1917. Bisognava scappare, sì, ma dove? E con che cosa? A Cismon, dove c’è una stazione ferroviaria, li aspettava un treno e la prima tradotta con 1500 passeggeri, soprattutto donne, vecchi e bambini partì sbuffando verso le dieci del mattino, destinazione Ferrara. Alle quattro del pomeriggio ne partì una seconda e il paese, nel giro di poche ore, si trovò completamente svuotato dei suoi abitanti, deserto. L’ultimo a lasciare fu il parroco, dopo essersi accertato che ogni casa fosse vuota e che nessuno si fosse nascosto. Nel frattempo una carretta mandata dall’esercito aveva provveduto a trasportare alla stazione anche la statua della Madonna del Pedancino, con tutto il suo corredo al completo, unico bene prezioso rimasto a quella infelice popolazione.
Dopo una prima sosta a Ferrara il treno fu fatto proseguire verso sud, sempre più giù lungo lo stivale, in un interminabile calvario di soste e di ripartenze finché due settimane dopo arrivò in Sicilia, a Giarre, in provincia di Catania. Era il 21 novembre 2017. La statua della Madonna fu posta amorevolmente nella Chiesa del Convento degli Agostiniani Scalzi dove rimase sino al Giugno del 1919.
A dire il vero anche qui da noi, a Padova, durante la seconda guerra mondiale si conobbero questo genere di spostamenti forzati ma, essendo cambiata la tattica della guerra, fatta non più di trincee bensì di bombardamenti a tappeto, la gente fuggiva dalle proprie case correndo nei rifugi, oppure “sfollava” dal centro città verso la campagna. Bersagli preferiti dagli aeroplani erano, infatti, la stazione ferroviaria, i complessi industriali, le vie di comunicazione, i ponti. A casa mia vennero ospitate per alcuni mesi, prima della liberazione, due famiglie di sfollati provenienti dal Portello che vivevano praticamente con le uova delle nostre galline, il latte delle mucche appena munto, il grasso del maiale rigorosamente conservato nella “vescica”. Una pacchia per quei tempi di grande penuria. Mio padre era stato precettato dai Tedeschi per trasportare col suo cavallo gli uomini validi fino a Monselice, obbligati dalla Todt a scavare trincee di contenimento all’avanzata degli Alleati. E tutto il giorno questi poveri badilanti non facevano che imprecare alla guerra tra di loro a bassa voce, fumando tabacco riciclato dalle cicche raccolte per terra. Anche le donne rimaste a casa non erano da meno nel confezionarsi le sigarette con la “cartina” trasparente arrotolata, la qual cosa era considerata da mia madre come un segno di grande emancipazione femminile, oltre naturalmente al fatto di mettersi il rossetto e al parlare alquanto sboccato. Ma, si sa, ai “Porteati” si perdonava questo e altro in quanto già di per sé non godevano di buona fama tra i quartieri di Padova. Bisogna dire però che, finita la guerra, la riconoscenza per quella ospitalità rimase e spesso la domenica venivano a trovarci per ricordare le avventure di “Pippo” e tutto il resto.
Anche i nostri profughi di Cismon, alcuni mesi dopo l’armistizio, da Giarre fecero ritorno al loro paese andato completamente distrutto, le case sventrate, porte e finestre divelte e date alle fiamme. Nessuno mai avrebbe immaginato una devastazione così totale, unico testimone, rimasto miracolosamente in piedi, il povero campanile privato delle sue campane che svettava su cumuli di macerie come dopo un terremoto. Ma intanto fra questi due paesi così lontani geograficamente si era stabilito un vincolo di profonda amicizia, che per fortuna continua a rimanere vivo ancora oggi, rinsaldato dal gemellaggio ufficiale tra i due Comuni, a testimonianza di un legame indissolubile fondato sui valori dell’unità nazionale.