Si chiamava “FACTIO VENETA” la squadra degli aurighi veneti che a Roma gareggiava abitualmente col colore azzurro alla presenza dell’imperatore. La corsa delle bighe e delle quadrighe si svolgeva nel Circo Massimo, il più grande ippodromo stabile dell’Impero, anche se alcune corse di carri a tre cavalli o con cavalli montati dal cavaliere si facevano pure al circo Flaminio.
Il Circo Massimo a Roma, era lungo ben 600 metri e largo 140
Si trattava dello sport più popolare, diffuso in tutto l’Impero, tanto che ogni città aveva il suo circo, così come le sue terme ed il suo anfiteatro, e questo a Tarragona come a Toledo, a Leptis Magna in Libia come ad Arles e a Nimes in Francia, a Pola in Croazia come a Milano, a Verona, a Padova. E proprio qui a Padova, nel museo degli Eremitani, si può ancora vedere una piccola lapide eretta in memoria di un cavallo di nome Aegiptus, il più amato dal suo padrone in quanto era il primo della quadriga, “intra jugo primo”, come recita la scritta.
Di norma i giochi si svolgevano in occasione di particolari festività religiose e rispettavano un cerimoniale molto preciso: si iniziava con una solenne processione (pompa)che faceva il giro del circo attorno alla spina centrale; seguivano i sacrifici alle divinità e alla fine entravano le varie squadre dette“factiones” sempre in numero di quattro: factio albata (i bianchi), factio russata (i rossi), factio prasina (i verdi), factio veneta (gli azzurri). Si, avete letto bene, gli “Azzurri” di un tempo erano gli aurighi veneti, famosi a tal punto che in latino, per indicare il colore azzurro, si cominciò semplicemente a dire “venetus”.
Per i Romani andare ad assistere alle gare non era poi così semplice, anzi si trattava di una bella faticaccia, come lo è oggi andare allo stadio, in quanto, per trovare posto al Circo Massimo, che pur arrivava a contenere 250 mila spettatori, ci si doveva alzare prima dell’alba e rimanervi fino a pomeriggio inoltrato, senza neppure un “velario” sulle tribune che d’estate garantisse un po’ d’ombra, come invece aveva il Colosseo.
E anche allora non mancavano gli eccessi e le violenze degli ultras delle opposte tifoserie, con scontri furibondi che troviamo descritti e deprecati in molte cronache dell’epoca, dato anche il carattere strettamente religioso delle corse che arrivava a vietare al pubblico l’uso di cibi e bevande.
A tal proposito si narra che una volta fu lo stesso imperatore Ottaviano Augusto a rimproverare uno spettatore che tra una corsa e l’altra mangiava e beveva, al che questi ebbe l’ardire di rispondergli che se lui, Augusto, avesse lasciato il suo posto per andare a rifocillarsi, di sicuro lo avrebbe ritrovato libero al suo ritorno, mentre lui no. Non si sa come l’abbia presa l’imperatore.
All’uscita dai cancelli (carceres), i concorrenti si allineavano su una linea arcuata che doveva compensare il vantaggio di quelli più prossimi alla spina centrale, poi squillavano le trombe ed iniziava la corsa, lunga ben sette chilometri, assai impegnativa e senza esclusione di colpi, come molti ricorderanno nel famoso film di ”Ben Hur”.
Gli aurighi solitamente erano degli schiavi particolarmente dotati, a volte persino dei prigionieri cui veniva concesso l’affrancamento in caso di vittoria, oltre al diritto di incassare una percentuale sulle scommesse. In tal modo i più bravi tra loro potevano diventare ricchissimi, come un campione milionario di nome Diocle, che vinse ben 3 mila corse di bighe e millecinquecento di quadrighe.
A Costantinopoli l’imperatore dell’Impero Romano d’Oriente fece addirittura raffigurare, ad eterna memoria, l’auriga Porfirio sul basamento di una delle colonne della spina del circo fatto costruire da Costantino, quello stesso circo dove i Veneziani, mille anni dopo, esattamente durante la quarta Crociata del 1204, si impossessarono della magnifica quadriga di cavalli di bronzo dorato per esporla sulla loggia della basilica di San Marco.
Curiosità storica sul colore azzurro
Il mondo latino, come abbiamo accennato, non conosceva il termine “azzurro” tanto che usò il vocabolo “venetus” per descriverlo. Greci ed italici, infatti, non amavano il blu poiché lo consideravano di gusto barbaro, segno di foschi presagi. Invece Veneti, Celti e Germani vi attribuivano un profondo significato di ispirazione magico-religiosa. I guerrieri di questi popoli usavano scendere in combattimento solo dopo aver dipinto se stessi, i propri cavalli e persino le proprie navi (come ad esempio per i Veneti di Bretagna) con questo colore.
Recentemente, per via di un tristissimo fatto di cronaca successo in Sicilia, ho scoperto che esiste persino un paese in provincia di Messina che si chiama “Venetico”, non tanto perché abitato da antichi Veneti ma perché famoso nell’antichità per i suoi giacinti azzurro-blu, come rappresentato anche oggi nel bel gonfalone comunale. Talmente questo termine “Venetus” per indicare il colore azzurro era entrato nel linguaggio comune di tutti gli Italici.
E questa usanza dell’azzurro dobbiamo dire che è continuata anche sotto il dominio della Serenissima, specie a partire dal 1600, talvolta abbinato all’oro, sia nelle bandiere che nelle uniformi militari dell’esercito veneto, nonché nei punti più prestigiosi della città come, se fate caso, sulla torre dell’orologio in piazza San Marco e sulla facciata stessa della basilica.