Dai tempi più remoti il vino è sempre stato declamato come bevanda degli dèi, con protettore il dio Dioniso per i Greci e Bacco per i Romani. Per noi cristiani poi, a cominciare dal racconto biblico di Noè fino all’Ultima Cena, più che un simbolo il vino è poi assurto ad una vera e propria consacrazione.
Ma il concetto della “Sacra Vitis” non era nuovo ed era già stato ripreso in diversi modi da grandi poeti pagani come Virgilio, Catullo (non per nulla di Verona!) e Orazio, quello del carpe diem per intenderci, tanto che alla vite era riservato un posto d’onore in Campidoglio, assieme al fico e all’ulivo.
Poi, dopo secoli di degrado e di scorrerie compiute dai barbari, la sua coltivazione riprese vigore nel Medio Evo e venne gestita con rinnovata cura dai monaci Benedettini, forti della Regola di San Benedetto:“…allora sono veramente monaci se vivono del lavoro delle proprie mani”.
E così, in una conferenza su “Vino e Spiritualità” tenuta presso la sede del nostro concittadino Efrem Tassinato, fondatore e presidente del circuito internazionale Wigwam ad Arzerello, ho potuto incontrare di persona l’abate benedettino di Praglia dom Stefano che, tra un sorso e l’altro, ci ha illustrato le molteplici funzioni di relazione che il vino ha avuto e continua ad avere nella vita degli uomini, a partire appunto dalla Bibbia fino ai giorni nostri, sia nelle celebrazioni religiose che in quelle laiche, nelle feste e nei convivi, presente tanto alla corte dei re che alla mensa dei poveri.
D’altronde la memoria di un interesse particolare dei monaci benedettini per le vigne con relativa produzione di vini pregiati ha origini antiche ed è custodita in documenti di quasi mille anni. Non per nulla lo champagne, il vino più famoso di Francia, porta il nome di un monaco benedettino dom (dominus) Pérignon, per molti anni cellario (cantiniere) del suo convento, che si dice essere anche l’inventore dello spumante, con l’uso dei primi tappi in sughero per le bottiglie (e non più di cera o di pece) per tenere a bada questo vino frizzante del…diavolo.
E ancor oggi, nell’abbazia di Praglia, questa tradizione continua con l’allestimento di una nuova, bella cantina moderna che “sforna” vini di classe dai simpatici nomi latini, evocativi del luogo: “Claustrum”, “Decanus”, “Abbas” tanto che, nella confidenza della serata, anch’io ho suggerito all’abate:”A quando il “Papabilis”? E dom Stefano, con un sorriso, ha annuito alla mia proposta mentre ci spiegava che a tavola ogni monaco ha diritto al suo bel quartino di vino sia a pranzo che a cena. Anche se, diceva, oggi sono soprattutto gli anziani a berlo e ad apprezzarlo piuttosto che i giovani.
Preziosa pure la presenza del prof. Danilo Gasparini, storico medievalista dell’università che, citando il medico padovano Michele Savonarola (nonno di quel fra’ Girolamo che a Firenze finirà sul rogo per aver predicato contro i Medici), illustrava le molteplici proprietà del vino secondo i canoni dell’epoca: nutre, fa sempre bene, previene e guarisce, fortifica, favorisce la digestione, fa buon sangue, è antisettico, elimina gli “umori” cattivi, rallegra il cuore e pure l’anima.
Alla faccia degli astemi!
Passando poi, sempre il Savonarola, a descriverlo minuziosamente come si fa oggi al “Vinitaly”:
– Per lo colore, che alcuno è bianco, alcuno è negro, alcuno de mezo colore; il bianco, posto la parità debita, è men possente…il negro è più potente.
– Per lo sapore, alcuno è dolce, alcuno è garbo,
– Per lo odore, quello che ha bon odore è forte e delectevole, quello tale è più caldo e più possente.
E imperò i Paduani, meio sapendo tale signo,
– sempre scorla prima nel bichiere,
– dopo lo nasa
– e cussì de lui iudica…”Avete capito dove è nata la professione del perfetto sommelier? In casa nostra!
Dai tempi più remoti il vino è sempre stato declamato come bevanda degli dèi, con protettore il dio Dioniso per i Greci e Bacco per i Romani. Per noi cristiani poi, a cominciare dal racconto biblico di Noè fino all’Ultima Cena, più che un simbolo il vino è poi assurto ad una vera e propria consacrazione.
Ma il concetto della “Sacra Vitis” non era nuovo ed era già stato ripreso in diversi modi da grandi poeti pagani come Virgilio, Catullo (non per nulla di Verona!) e Orazio, quello del carpe diem per intenderci, tanto che alla vite era riservato un posto d’onore in Campidoglio, assieme al fico e all’ulivo.
Poi, dopo secoli di degrado e di scorrerie compiute dai barbari, la sua coltivazione riprese vigore nel Medio Evo e venne gestita con rinnovata cura dai monaci Benedettini, forti della Regola di San Benedetto:“…allora sono veramente monaci se vivono del lavoro delle proprie mani”.
E così, in una conferenza su “Vino e Spiritualità” tenuta presso la sede del nostro concittadino Efrem Tassinato, fondatore e presidente del circuito internazionale Wigwam ad Arzerello, ho potuto incontrare di persona l’abate benedettino di Praglia dom Stefano che, tra un sorso e l’altro, ci ha illustrato le molteplici funzioni di relazione che il vino ha avuto e continua ad avere nella vita degli uomini, a partire appunto dalla Bibbia fino ai giorni nostri, sia nelle celebrazioni religiose che in quelle laiche, nelle feste e nei convivi, presente tanto alla corte dei re che alla mensa dei poveri.
D’altronde la memoria di un interesse particolare dei monaci benedettini per le vigne con relativa produzione di vini pregiati ha origini antiche ed è custodita in documenti di quasi mille anni. Non per nulla lo champagne, il vino più famoso di Francia, porta il nome di un monaco benedettino dom (dominus) Pérignon, per molti anni cellario (cantiniere) del suo convento, che si dice essere anche l’inventore dello spumante, con l’uso dei primi tappi in sughero per le bottiglie (e non più di cera o di pece) per tenere a bada questo vino frizzante del…diavolo.
E ancor oggi, nell’abbazia di Praglia, questa tradizione continua con l’allestimento di una nuova, bella cantina moderna che “sforna” vini di classe dai simpatici nomi latini, evocativi del luogo: “Claustrum”, “Decanus”, “Abbas” tanto che, nella confidenza della serata, anch’io ho suggerito all’abate:”A quando il “Papabilis”? E dom Stefano, con un sorriso, ha annuito alla mia proposta mentre ci spiegava che a tavola ogni monaco ha diritto al suo bel quartino di vino sia a pranzo che a cena. Anche se, diceva, oggi sono soprattutto gli anziani a berlo e ad apprezzarlo piuttosto che i giovani.
Preziosa pure la presenza del prof. Danilo Gasparini, storico medievalista dell’università che, citando il medico padovano Michele Savonarola (nonno di quel fra’ Girolamo che a Firenze finirà sul rogo per aver predicato contro i Medici), illustrava le molteplici proprietà del vino secondo i canoni dell’epoca: nutre, fa sempre bene, previene e guarisce, fortifica, favorisce la digestione, fa buon sangue, è antisettico, elimina gli “umori” cattivi, rallegra il cuore e pure l’anima.
Alla faccia degli astemi!
Passando poi, sempre il Savonarola, a descriverlo minuziosamente come si fa oggi al “Vinitaly”:
– Per lo colore, che alcuno è bianco, alcuno è negro, alcuno de mezo colore; il bianco, posto la parità debita, è men possente…il negro è più potente.
– Per lo sapore, alcuno è dolce, alcuno è garbo,
– Per lo odore, quello che ha bon odore è forte e delectevole, quello tale è più caldo e più possente.
E imperò i Paduani, meio sapendo tale signo,
– sempre scorla prima nel bichiere,
– dopo lo nasa
– e cussì de lui iudica…”Avete capito dove è nata la professione del perfetto sommelier? In casa nostra!
Due brevi note storiche
Una risposta.
Cin-cin Adriano, alla salute ! ,e Buon Compleanno !