E’ esattamente quello che è accaduto alla nostra amata Repubblica Veneta dopo mille anni di storia gloriosa, divorata dal “lupo napoleonico”, prima smembrata e fatta a pezzi col patto segreto di Leoben, in Stiria, nell’aprile del 1797, e poi venduta con il trattato di Campoformido nell’ottobre di quello stesso anno.
Per la verità, era almeno dalla seconda metà del ‘700 che il leone di San Marco aveva smesso di ruggire e di imbracciare la spada. Preferiva starsene neghittoso “in moeca” nelle ville e nei salotti veneziani, mentre in Europa ribollivano le guerre di successione, si facevano e disfacevano alleanze fra imperi e la rivoluzione francese era minacciosamente alle porte.
In questo periodo di lenta decadenza Venezia ha una sola preoccupazione: mantenere la sua beata neutralità fra i contendenti Spagnoli, Inglesi, Francesi e Austriaci per godere i frutti di una pace fittizia che, alla lunga, l’avrebbe portata a infiacchirsi su tutti i fronti, sia quello militare e politico che su quello commerciale.
E quando, sul finire del secolo, a sud delle Alpi si affaccerà Napoleone con la sua “Armée d’Italie” per contrastare gli Asburgo in Italia, ecco che la tenaglia si chiuderà impietosamente su di lei, diventata di fatto un “vaso di coccio tra vasi di ferro”, come direbbe il Manzoni. E viene da ridere, per non piangere, scoprire che nelle carte dell’epoca la maggiore preoccupazione del senato, ancora a pochi mesi dalla fine, sia quella rivolta al regolare svolgimento del carnevale, mentre Francesi e Austriaci scorrazzavano per tutto il Veneto ridotto a un campo di battaglia.
Eppure i “Pregadi” del Maggior Consiglio avrebbero dovuto prevedere per tempo che una guerra combattuta in casa propria fra eserciti stranieri non poteva certo passare indenne senza colpo ferire.
Eppure i Capitani de tera e de mar avrebbero dovuto capire che era preferibile una pace armata piuttosto di una semplice pace neutrale, di chi se ne sta alla finestra a guardare con la speranza che passi la bufera.
Eppure, vent’anni prima dell’infausto giorno, lo aveva già detto un certo Mocenigo, Provveditore dell’Arsenale, che ”l’amor della pace spinto all’eccesso rappresenta per lo Stato un pericolo”. Eppure…eppure… ma tant’è, fra mille tentennamenti, rinvii, ordini, contrordini, pletora di burocrazia e missioni diplomatiche andate a vuoto, la repubblica si andava oramai scavando la fossa da sola per l’inettitudine e la miopia della sua vecchia classe dirigente. Fino all’ultimo i nobili patrizi veneziani, ormai tagliati fuori dalla storia, avevano pensato che si trattasse del solito temporale di passaggio e che sarebbe bastato mettere temporaneamente al riparo “la roba e la pelle” e poi tutto sarebbe tornato come prima. Ahimè! Questa volta la tanto cara politica dello struzzo non avrebbe pagato e ben se ne accorse, per quanto in ritardo, anche il povero Ludovico Manin, ultimo doge della sventurata Serenissima quando, nell’ultimo consiglio del 12 maggio del ‘97 a palazzo ducale, ebbe ad esclamare:”E stasera no saremo sicuri neanca nei nostri leti!”.
E pensare che, nonostante tutto, nei porti dell’Adriatico avevamo ancora più di duecento “legni” fra “armata sottile” e “armata grossa” di galee, galeazze e velieri con tanto di cannoni che avrebbero potuto agevolmente contrastare qualsiasi invasione francese via mare. Per non parlare delle difese naturali via terra poiché Venezia, da sempre, era risultata essere imprendibile in quanto il lungo ponte della Libertà, che oggi fa da collegamento con le isole, era ancora di là da venire. Dunque, perché non armarsi, perché non mostrare almeno gli artigli dei nostri forti e dei nostri presidi che pur non mancavano, da Bergamo a Brescia, da Verona a Palmanova, fino a Chioggia, al Lido, all’Istria, alla Dalmazia, alle isole Ionie? Perché? Perché?
In un primo tempo anche il ventisettenne generale, nella sua corsa vittoriosa verso Vienna, aveva temuto tutto questo e aveva messo in conto un possibile colpo di mano della veneta repubblica che, con i suoi ventimila fucili fra arsenalotti, schiavoni, cernide e quant’altro, gli avrebbe potuto tagliare alle spalle, nelle retrovie, rifornimenti e viveri. Ed è appunto su questo timore che si doveva far leva, accidenti, almeno per avere la forza di trattare dignitosamente e non diventare pura merce di scambio con l’Austria. Invece niente di niente. E, mentre la nobiltà se la squagliava, il vecchio doge che ti fa? Offre all’impudente invasore, con l’intento di tenerselo amico, nientemeno che la sua villa di Passariano per ben due mesi, come alloggiamento per sé e la sua Giuseppina Beauharnais.
Ecco, in breve, spiegati i motivi di una incomprensibile quanto inutile neutralità di Venezia, per cui ogni sussulto d’orgoglio del leone marciano svanì e non ci fu un benché minimo tentativo di difesa della città, finita nel caos di continue tergiversazioni, compromessi e vani ripensamenti.
E fu così che lo Stato più antico d’Europa si suicidò con le sue stesse mani.
(Tratto dal libro: Venezia neutrale, la fatale illusione, di Federico Moro)