C’era una volta un mugnaio di nome Severino, talmente buono e simpatico che sembrava uscito da un libro di fiabe. Era piccolo di statura ma assai robusto, con due spalle larghe così e due bicipiti possenti ma non metteva paura a nessuno anzi, con il suo carattere allegro e burlone spandeva ottimismo e simpatia ovunque andasse.
E con il fisico che si ritrovava chi non l’avrebbe assunto come ragazzo tuttofare nei lavori più disparati? Infatti il suo primo “mestiere” (così una volta si chiamava il lavoro), fu quello di trasportare pacchi da un capo all’altro di Padova per conto terzi, da magazzino a negozio, da negozio a cliente, in qualità di fattorino che esegue le consegne a domicilio, foss’anche il solo portare la spesa nelle case dei “signori”. Un perfetto “rider” di oggi insomma, con tanto di grossa bicicletta attrezzata a portapacchi davanti e di dietro.
Severino aveva da poco compiuto i quindici anni e, anche se a quell’epoca non sempre c’erano orari fissi o contratti regolari per chi veniva assunto in parola come garzone di bottega, egli ebbe la ventura di avere fin da subito il suo bel libretto di lavoro dalla ditta Papalia di via Rudena. Veniva pagato settimanalmente con pochi soldi ma Dio sa quanto preziosi per le famiglie contadine come la sua che non avevano entrate in denaro contante se non quando vendevano le magre risorse stagionali ricavate dai campi in affitto.
Partiva la mattina presto dalla vecchia casa sul lungargine del Roncajette e se ne andava fischiettando su e giù per la città, agile e leggero come una piuma fino a sera, lo sguardo vigile a osservare con occhio attento tutto e tutti. Sì perché Severino, oltre che essere forte era anche un ragazzo sveglio e intelligente che sapeva intuire di colpo i “desiderata” dei suoi padroni per poi eseguirli alla lettera senza risparmiarsi.
Ma ecco, siamo nel 1947, il ragazzetto si fa uomo, arriva alla maggiore età dei 21 anni canonici per essere inserito nel mondo degli adulti. Era il momento in cui, come dicevano i vecchi, per forza di cose si doveva “mettere la testa a posto”, cercando innanzitutto un lavoro più redditizio, possibilmente stabile, se si voleva metter su famiglia.
A Ponte S. Nicolò il titolare del vecchio “Molino” (anticamente si scriveva proprio così) situato nel centro al paese si chiamava Carlo Borgato e mandava avanti col figlio Giacomo l’impresa di famiglia. La guerra era finita da appena due anni, si respirava un’aria nuova di libertà e di voglia di fare, le attività agricole si erano riprese con nuovo vigore grazie anche ai primi trattori e alle prime mietitrebbia. Per caricare e scaricare i sacchi di granaglie che arrivavano sempre più numerosi anche dai paesi limitrofi c’era bisogno di un aiutante giovane e robusto ed ecco farsi avanti Severino che viene assunto al primo colpo come collaboratore e aiuto mugnaio. In men che non si dica il giovanotto si buttò nel nuovo lavoro con la passione e l’entusiasmo che lo contraddistinguevano, la fatica non gli pesava anche se i sacchi da trasportare quelli sì pesavano, eccome!
Aiutava sempre tutti col sorriso ma più volentieri gli anziani quando arrivavano alla “pesa” vicino al mulino con il carro trainato dal cavallo o addirittura da una mucca per i meno abbienti. Con i giovani, invece, che amavano provocarlo sulle sue capacità di resistenza, si ringalluzziva tutto e arrivava a caricarsi sulle spalle fino a un sacco da un quintale sfidandoli a batterlo. E il massimo della scommessa consisteva di solito in una birra o in un buon bicchiere di “spuma” fresca, la bibita analcolica per eccellenza in voga a quei tempi e, nell’improvvisata competizione, vinceva sempre lui naturalmente.
Passava la maggior parte della giornata dentro al mulino, dove oggi sorge una moderna farmacia, avvolto in una costante nuvola bianca di farina, tra uno sferragliare di ruote, di macine, di pulegge che si poteva sentire anche da lontano. Era questo il suo regno dove, di tanto in tanto nella penombra, lo vedevi apparire e sparire d’improvviso dietro ai sacchi o dietro alla tramoggia, instancabile, attento, scrupoloso nel seguire passo passo l’andamento della molitura. E quando, nei momenti di maggiore afflusso di granaglie il lavoro si protraeva fino a sera inoltrata alla luce fioca delle poche lampadine, le ombre cinesi di questo folletto indaffarato si proiettavano sulle pareti scrostate della bottega e disegnavano altrettante magie di questo suo mondo incantato.
Talvolta gli avventori della vicina osteria “Da Stropei” di Benetazzo Luigi e Celeste, mentre mangiavano qualche “spunceto” in attesa dei sacchi di farina lo invitavano a bere un bicchiere con loro allo scopo di stuzzicarlo perché si esibisse in una delle sue acrobazie preferite e Severino, non ancora pago delle fatiche della giornata, trovava la forza per un ultimo giro da acrobata con una delle sue piroette. Allora si metteva a testa in giù e camminava in mezzo ai tavoli con le gambe all’aria, appoggiato al pavimento solo sulle mani, fra gli applausi divertiti della gente. Eh sì, a quei tempi non c’era la televisione nelle case e men che meno tutte le diavolerie dei “social” e dei telefonini che oggi imperversano nelle nostre vite, bastava la verve e la bravura di un giocoliere da strada come lui per allietare le serate.
Ma anche la favola bella di questi vent’anni passati a fare il mugnaio purtroppo era destinata a finire. Alle soglie degli anni sessanta l’economia italiana rapidamente si evolve trasformandosi da economia agricola a economia industriale. E’ il periodo del “miracolo economico”, si creano le prime zone industriali fuori città, sorgono nuovi cantieri, le fabbriche hanno fame di mano d’opera, i lavori tradizionali “di paese” come il sarto o il calzolaio languiscono o spariscono del tutto e anche il nostro mulino, investito dalla crisi, è costretto a chiudere i battenti. Peccato, perché il Ponte di S. Nicolò era stato famoso nei secoli, dal Medio Evo in poi, proprio per i suoi mulini galleggianti, fonte di commercio e di prosperità per questa piccola comunità. Con non poco dispiacere Severino, a testa bassa, è costretto ad adattarsi a un nuovo lavoro, quello di operaio alle Minuterie Metalliche della “Capica”. Addio libertà goduta all’aria aperta, addio giocosità nella fatica, addio scherzi con gli amici! All’inizio fu davvero un trauma passare a questo nuovo stile di vita, regolamentato e ripetitivo, per uno come lui che tanto si era divertito a cantare e a far divertire gli altri con spettacoli improvvisati “camminando sulle mani” o “vestendosi da pagliaccio”. Anche se un piccolo spazio di libertà volle ugualmente conservarlo e tenerselo gelosamente per sé. Infatti, durante le festività natalizie, amava travestirsi da Babbo Natale e andare scampanellando col suo asinello agghindato per le strade del paese per la gioia dei bambini, e non solo. A portare quella gioia e quella serenità per cui, ancora oggi, da molti viene ricordato e rimpianto.
Breve nota biografica
Nicolè Severino, figlio di Giovanni, nasce a Ponte S.Nicolò il 26.10.1926.
Da ragazzo lavora prima come fattorino a Padova presso la ditta Papalia e poi, dal 1947 al 1966 come mugnaio presso il Mulino di Borgato Carlo e figlio Giacomo a Ponte S. Nicolò. Il primo maggio del 1954 si sposa con Burattin Laura di Padova, sarta, dalla quale ha due figlie, Marilena e Oriana, e, pian piano, riesce a farsi una casa di proprietà. Nel 1966 viene assunto come operaio alle Minuterie Metalliche della “Capica”. La morte lo coglie il 29 dicembre del 1986.
Motivi di una titolazione
Se è vero, come è vero, che i nomi delle vie, delle piazze e dei giardini che percorriamo quotidianamente evocano la nostra storia e le nostre tradizioni, quella di intitolare un angolo di Ponte S. Nicolò al nostro concittadino NICOLE’ SEVERINO sembra una scelta non solo opportuna ma più che mai doverosa, sia per la sua valenza storica che sociale. Innanzitutto per la sua valenza storica, in quanto Severino è l’ultimo mugnaio “testimonial”di una tradizione secolare che a Ponte S. Nicolò e a Roncajette ha prosperato a lungo nel corso dei secoli e non va dimenticata.
E poi per la sua valenza sociale, perché con essa si vuole rendere giustizia a tutta quella miriade di umili servitori del proprio paese che, come Severino, hanno lasciato dietro di sé esempi di laboriosità e di onestà spesi a servizio della collettività. L’identità di un popolo, infatti, non è solo frutto di esempi altisonanti di scienziati o di scrittori ma si misura altresì nel comportamento umile ed operoso delle persone comuni in relazione al loro ambiente e al loro stile di vita, con l’intento di rendersi utili alla comunità cui appartengono.
Prof. Adriano Smonker