Nel febbraio del 1936 l’esercito italiano, in piena fase di espansionismo coloniale, era in guerra contro l’esercito del Negus in Abissinia, oggi chiamata Etiopia. Mio padre Ottavio aveva allora 24 anni ed era sposato da soli quattro mesi quando un triste gennaio del ‘35 si vide recapitare dal postino Plinio, soprannominato familiarmente il “cursore”, la fatidica cartolina precetto. Tempo 48 ore per presentarsi al comando militare di zona e partire, destinazione: Africa Orientale. Un lungo abbraccio alla sposa Agnese, di due anni più giovane di lui e incinta del suo primo figlio, un’ultima occhiata alla casa, alla stalla, alla “cesura” familiare dei campi e poi via verso l’ignoto: Catania, il Mediterraneo, la Libia, lo stretto di Suez, Mar Rosso, Oceano Indiano, sul transatlantico “Conte di Biancamano”, Chisimaio, Diredaua, Makallè, Addis Abeba. Tutti nomi e luoghi che neanche aveva mai sentito nominare dalla maestra di quinta elementare. Tornerà a casa dopo tre anni durissimi di boscaglia, smunto, la barba lunga e incolta, le gambe con le fasce, piagate, e la medaglia di “fondatore dell’impero”. Spesso, nei suoi ricordi, mi ripeteva: “Ma cosa siamo andati a fare in Africa contro gli Abissini che non ci avevano fatto niente?”
E così, non ci crederete, la parola “AMBARADAN” nasce proprio da loro, dai reduci che avevano combattuto sul massiccio montuoso dell’Amba Aradam e che in quella battaglia avevano sperimentato a loro spese i frequenti cambi di fronte delle truppe mercenarie che avrebbero dovuto combattere al loro fianco. Sulla carta si dicevano nostre alleate ma in realtà combattevano per liberare la loro terra dagli invasori. Alla fine, in tutta quella confusione dove nessuno sapeva più con chi o contro chi combatteva, il generale Badoglio, pur di averla vinta, fece ricorso anche alle armi chimiche, i terribili gas asfissianti che provocarono più di ventimila vittime fra militari e civili. Nel luglio del 1936 il fatto fu denunciato con veemenza all’assemblea della Società delle Nazioni dal deposto imperatore d’Etiopia Hailé Selassié ma solo 60 anni dopo, nel 1996, l’Italia riconoscerà di aver violato scientemente la Convenzione di Ginevra! I reduci, duramente provati da quella battaglia sull’Amba Aradam, una volta tornati a casa incominciarono ad usarla come sinonimo di scompiglio totale e il triste destino di questa strana parola è ancora vivo oggi sulla bocca di molti.
NB. Un’evoluzione simile ad “ambaradan” la troviamo nell’espressione: “E’ successo un quarantotto”, con riferimento ai moti rivoluzionari del 1848 contro i governi autoritari delle monarchie assolute.
Quello etiope è un impero millenario, ricco di storia, e il suo esercito riesce a dar filo da torcere agli invasori. Così, le truppe di Badoglio fanno ricorso alle armi chimiche.
Lo hanno coniato i reduci dalla campagna in Etiopia, una guerra che ha violato la Convenzione di Ginevra ed è stata portata avanti anche grazie a tribù mercenarie.
La guerra d’Etiopia, si svolse tra il 3 ottobre 1935 e il 5 maggio 1936 e vide contrapposti il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia con l’obiettivo a lungo termine di orientare l’emigrazione italiana verso una nuova colonia popolata da italiani e amministrata in regime di apartheid sulla base di una rigorosa separazione razziale, la propaganda coloniale fu tutta ispirata dal regime e si proponeva di preparare il paese ai fasti, ma anche ai sacrifici, dell’impero La svolta decisiva si ebbe nel dicembre 1934: il giorno 5 il presidio italiano di Ual Ual, nell’Ogaden, respinse un attacco di truppe abissine che tentavano di riconquistare parte dei territori che l’Italia aveva occupato negli anni precedenti approfittando della mancanza di un confine certo tra Etiopia e Somalia. La notizia inizialmente passò quasi inosservata dall’opinione pubblica, solo successivamente l’episodio fu ingigantito dalla propaganda fino a farne la provocazione che doveva giustificare la guerra. il Duce voleva un’affermazione di prestigio da cogliere subito. Fino a quel momento il predominio anglo-francese in Africa aveva impedito a Mussolini di conseguire un qualsiasi grosso successo internazionale che riteneva indispensabile per rafforzare e qualificare il regime fascista;
Mio padre c’era, aveva 24 anni, ma non era volontario e quella esperienza lo segnò per tutta la vita.
«TUTTO L’AMBARADAN». Probabilmente vi sarà capitato di sentire questa parola, o magari di pronunciarla, almeno una volta. Nel corso degli anni sono nate anche pizzerie, case editrici, negozi di articoli da regalo o di antiquariato con questo nome. Ma che cos’è l’AMBARADAN?
Deriva da un massacro consumatosi 81 anni fa. Il territorio è ricco di risorse e Mussolini pensa che l’Italia possa far valere la sua presunta superiorità, culturale ma soprattutto tecnologica, in poco tempo. La realtà è un’altra. Quello etiope è un impero millenario, ricco di storia, e il suo esercito riesce a dar filo da torcere agli invasori. Così, le truppe di Badoglio fanno ricorso alle armi chimiche.
È il 15 febbraio del 1936 quando l’esercito italiano, nei pressi del massiccio montuoso dell’Amba Aradam, prova a piegare la resistenza locale una volta per tutte. Si rivolge anche a delle tribù mercenarie, che però passano da una fazione all’altra a seconda della cifra offerta. Nei fatti, non si riesce a capire contro chi si stia combattendo. Insomma, «è tutto un ambaradan».
L’espressione nasce alla fine della guerra, quando i reduci la usano per descrivere situazioni di confusione durante una battaglia. «Proprio come ad Amba Radam». Da lì, per crasi, è diventata una parola unica. E per dei difetti di pronuncia, protrattisi negli anni, la “m” finale si è trasformata in “n”.
CRONACA DI UN GENOCIDIO: L’USO DELL’IPRITE
La battaglia dell’Amba Radam si risolve grazie al gas iprite rilasciato a bassa quota dall’aviazione. Anche sui civili. A terra, i soldati sparano proiettili all’arsina e al fosgene, fortemente tossici. Di fatto, si tratta di una evidente, ma rinnegata per decenni, violazione della Convenzione di Ginevra del 1928. L’iprite attacca le cellule con cui entra in contatto, distruggendole completamente. Causa infiammazioni, vesciche e piaghe, agisce anche sulle mucose oculari e sulle vie polmonari. La sofferenza è disumana. Nel luglio del 1936 l’imperatore deposto, Hailé Selassié, denuncia tutto all’assemblea della Società delle Nazioni, la mamma dell’Onu. Quello etiope è un impero millenario, ricco di storia, e il suo esercito riesce a dar filo da torcere agli invasori. Così, le truppe di Badoglio fanno ricorso alle armi chimiche. grazie alla desecretazione degli archivi voluta dal ministro della Difesa, il torinese Domenico Corcione.
Prove di genocidio anche nell’aprile del 1939, quando vengono chiuse le vie d’uscite delle grotte dell’Amba Aradam. All’interno vengono localizzati alcuni partigiani etiopi. La loro resistenza si sgretola sotto le bombe al veleno. Muoiono soldati e civili, donne e bambini. Chi sopravvive all’iprite è arso vivo con i lanciafiamme. Le sofferenze continuano fino al 1941, quando gli inglesi prendono il controllo della colonia italiana. Sono cinque anni di violenza indiscriminata, nascosta dal fumo dei gas: esecuzioni, stupri, campi di concentramento, torture. Nessuno ha pagato per aver violato i diritti umani. Uno dei responsabili, il governatore fascista dell’Etiopia Rodolfo Graziani, è stato inserito nella lista dei criminali di guerra senza venire mai processato.
Si presume che questo termine abbia avuto origine dall’Amba Aradam, un massiccio dell’Etiopia presso cui, nel 1936, avvenne una cruenta battaglia tra italiani e abissini, seguita da una strage di civili da parte delle forze italiane. Durante questa battaglia le truppe italiane erano alleate con alcune tribù locali ma, a seconda delle trattative in corso, alcune di queste si alleavano a loro volta con il nemico, per poi riaffiancare i soldati italiani. La battaglia fu vinta dalle Camicie nere, che presero il controllo della situazione e ordinarono l’uso di gas tossici vietati, provocando la morte di circa 20.000 etiopi, tra civili e militari.
Al loro ritorno in Italia, i soldati, di fronte a una situazione disordinata e caotica, cominciarono a definirla «come ad Amba Aradam», «è un’Amba Aradam». E, per crasi, le due parole si sono fuse in una sola diventando “ambaradam” (la trasformazione della consonante finale m in n è un banale errore di pronuncia diventato comune poiché la parola si trova raramente in forma scritta).
La Stampa della Sera, 17-18 febbraio 1936
«ITALIANI, BRAVA GENTE»
Sulle violenze in Etiopia sono stati scritti tantissimi saggi, firmati da fior di antropologi. Documenti che hanno sconfessato il mito degli «Italiani brava gente», nato già all’epoca delle prime guerre coloniali (1885). Un falso storico. Sì, in Etiopia si sono costruite strade e scuole: le prime necessarie per i trasporti e gli autocarri, le seconde riservate inizialmente solo ai bianchi. Un colonialismo breve, estremamente violento, conclusosi con un nulla di fatto. Oggi pesa nel conto delle accise sulla benzine, destinate a ripagare quella spedizione. L’Etiopia non ha mai capito il perché di quella guerra. Non è stata una colonizzazione, bensì un’invasione crudele, sprezzante di tutti i trattati internazionali. A distanza di oltre 80 anni è ancora inspiegabilmente ricordata dalla toponomastica di alcune città italiane. Da Roma a Genova, c’è “via dell’Amba Aradam”. Una testimonianza stradale di un revisionismo persistente. Per capire il paradosso, cosa pensereste se vi ritrovaste a percorrere un’ipotetica “via Auschwitz” nel cuore di Berlino? Gli eventi accaduti in questa località hanno originato il termine italiano “AMBARADAM“, del quale la versione “AMBARADAN” ne è una pronuncia storpiata, il cui significato è, “confusione”, “impresa complessa”, qualcosa di simile a “baraonda”, dovuto anche al fatto che le due parole suonano simili. Nella battaglia dell’Amba Aradam gli italiani si allearono con tribù locali, a loro volta alleate con il nemico, e nello scontro si creò una tale confusione per cui nessuno alla fine era in grado di capire contro chi combatteva. Un gigantesco e sanguinoso teatro dell’assurdo, del quale la parola riprende curiosamente anche un’involontaria vena comica.