Provate voi a sedervi tranquillamente a tavola con gli amici a mangiare, ridere e scherzare fra una portata e l’altra sapendo che sopra la vostra testa è appesa una spada affilata, tenuta su solo da un esile crine di cavallo, talmente grossa e pesante che può cascarvi addosso da un momento all’altro e spaccarvi in due il cervello.
Solo un pazzo lo farebbe, eppure è quello che il tiranno di Siracusa Dionigi ha voluto far provare ad uno dei suoi cortigiani, adulatore di professione, invidioso della posizione di prestigio e di comando occupata dal suo padrone.
Ma chi era questo Dionigi?
Si trattava di Dionigi I il Vecchio, chiamato anche Dioniso, tiranno di Siracusa che nel IV sec. a.C. godeva di grande fama non solo in Sicilia ma anche in tutta l’Italia Meridionale, chiamata allora la “Magna Grecia” dai suoi colonizzatori per la fertilità della terra e la prosperità dei commerci con la madrepatria. L’influenza di questo re arrivava ad estendersi lungo tutte le coste dell’Adriatico, su, su fino ad Adria, tanto che alcuni studiosi non esitarono a definire il mare Adriatico come “Lago Siracusano”. E notizie di questa sua importanza strategica le troviamo, seppur frammentarie, nelle cronistorie dell’epoca, come quella del geografo Strabone il quale racconta che Dionigi si faceva comprare i famosi puledri bianchi (citati fin nell’Iliade di Omero) qui nel Veneto per il suo allevamento di cavalli da corsa. Talmente apprezzati sul mercato che nel 440 a.C. il fantino olimpionico Leonte di Sparta gareggiò e vinse la 85ma Olimpiade proprio con dei cavalli veneti di tal razza.
L’altra notizia che ci è stata tramandata, e che molti conoscono, è che fece scavare per le sue prigioni una grotta del tutto particolare che permetteva, appostandosi all’interno di una cavità superiore, di ascoltare i discorsi dei prigionieri ivi rinchiusi e di carpirne i segreti. Naturalmente venne subito soprannominato “l’Orecchio di Dioniso” in quanto la sua forma allungata ad orecchio d’asino possedeva caratteristiche acustiche tali da amplificare i suoni fino a ben sedici volte.
Ma per tornare al racconto su Damocle che ne fa Cicerone egli ci dice essere un membro della corte di Dionigi, un cortigiano dunque, il quale andava continuamente sostenendo che il suo padrone fosse una persona estremamente fortunata, potendo disporre di un così grande potere e di una così grande autorità su tutta la Sicilia e oltre.
E dai una volta, e dai due e dai tre alla fine Dionigi gli propose di prendere lui, allora, il suo posto per un giorno, così da assaporare a sua volta questa cosiddetta fortuna del comando. L’astuto adulatore accettò e la sera stessa si tenne un sontuoso banchetto durante il quale, seduto al posto d’onore su di un trono d’oro , incominciò a pregustare i piaceri di sentirsi l’uomo più potente della Trinacria: cibi raffinati in tavola su vasellame d’argento, ospiti famosi intorno, servitù pronta ad ogni suo cenno. Solo che,verso il termine della cena, alzando per caso distrattamente lo sguardo, notò con terrore che, dritta, dritta sopra la sua testa stava appesa una spada legata al soffitto solo con un crine di cavallo.
Accidenti se capì la lezione! Smise all’istante tutta la sua baldanza e supplicò immantinente il suo padrone di toglierlo al più presto da quel posto tanto pericoloso, pieno di minacce e di insidie. E così, ancora oggi, dopo più di duemila anni, il detto della “spada di Damocle” viene citato in tutte le lingue come metafora per esprimere l’insicurezza legata al ruolo di un uomo di comando che vive costantemente nel timore di essere detronizzato. Il messaggio è chiaro: anche i potenti della terra, che tanta invidia suscitano, hanno di certo mille e più spade di Damocleche penzolano quotidianamente sulle loro teste, impegnati come sono a guardarsi alle spalle per difendere il loro status di potere, spesse volte ottenuto eliminando gli avversari, politici od economici che siano, dal loro cammino.
MORALE
Meglio restare ognuno nel proprio ambito senza invidiare quello degli altri. Tanto più oggi che, con l’avvento della pandemia, pende sul mondo intero una spada di Damocle che tutti accomuna in un fatale destino.