Mi ha sempre colpito un proverbio africano che dice: «Quando muore un anziano è come se bruciasse una biblioteca». Formidabile metafora nella sua geniale stringatezza.
E’ stato coniato da un celebre scrittore del Mali vissuto nel secolo scorso di nome Amadou Hampate Ba, uno storico, un poeta, un traduttore, nonché uno strenuo difensore delle antiche culture orali dei popoli. Culture orali che si trasmettevano attraverso la voce di quei poeti e cantori che in francese si chiamano «griots» e noi nel Medio Evo chiamavamo Trovatori.
Culture orali, sì, e forse non ci ricordiamo più (o magari preferiamo dimenticare) che anche noi siamo stati in gran parte analfabeti e che le conoscenze ci venivano trasmesse non già dai libri ma dagli anziani, dai nonni, dalle madri con storielle, proverbi, filastrocche, esempi, immagini sacre, orazioni. Basti pensare ai tanti«Filò» nelle varie regioni d’Italia ed è presto detto, la trasmissione dei saperi avveniva molte volte nelle…stalle, le prime scuole del popolo, alla luce di un lume a petrolio, dal Veneto alla Lombardia, dalla Toscana alla Sicilia.
E la cosa mi appare ancor più vera se penso a mia madre che, nata nel 1913, mi raccontava quando a casa sua, da bambina, arrivava ogni tanto il giornale portato da uno zio infermiere che lavorava a Padova, e questo era considerato un privilegio per tutta la famiglia, quasi fosse uno status symbol. Oggi vien da sorridere al solo pensiero di quanta carta stampata consumiamo in un solo giorno e son sicuro che molti dei nostri giovani stentano pure a credere a tutto ciò.
Per non parlare di quei poveri soldati italiani mandati al fronte nella guerra del 1915-18 che molto spesso neanche capivano gli ordini impartiti dai loro comandanti e neppure sapevano leggere le lettere che arrivavano da casa, molto spesso scritte dai loro parroci.
Un secolo è passato, solo un secolo, e nel frattempo ci siamo «digitalizzati» con tecnologie super raffinate sia nell’informatica che nella scienza, imparando ad usare di tutto: radio, telefonini, tablet, televisori, smartphone con o senza auricolari, per cogliere al volo notizie da tutto il mondo, a tal punto che arriviamo perfino ad «intasare» la nostra mente senza lasciarci il tempo di pesarle, di riflettere, di interpretarle. Un continuo bombardamento psicologico, non c’è più spazio per assimilare, accumulare esperienze, scambiarci un sorriso che non sia virtuale. Abbiamo trascurato i rapporti umani reali, quelli veri, che portavano i nostri anziani alla saggezza, alla sobrietà, al dialogo, al saluto, all’ascolto, addirittura al canto durante i lavori campestri.
Poi d’improvviso, in questo dannato 2020 è bastato un virus, un fottutissimo virus invisibile che ha preso a circolare attraverso tutti i continenti, mietendo migliaia di vittime specie fra i più deboli, gli anziani, e allora, di fronte a questa ecatombe, finalmente abbiamo aperto gli occhi.
Ci siamo guardati attorno, abbiamo di nuovo alzato lo sguardo su di loro, noi che li abbiamo relegati in massa nelle «case di riposo» diventate anzitempo le loro tombe, e abbiamo bramato il loro ultimo sguardo, il loro ultimo sussurro, un’ultima carezza, ma invano. Confinati anche noi come loro, porte invisibili si erano chiuse ormai per sempre e improvvisamente ci siamo sentiti orfani e soli. Impotenti li abbiamo visti crollare per primi, assieme alle certezze che ci eravamo costruiti, certezze surrettizie di onnipotenza basate sui selfies, sui social, sui media, tutte parole che loro stentavano a capire, vuote e senza senso. E’ bastato un veleno insidioso, virus in latino, a far cadere il gigante dai piedi di argilla, a ricordarci la precarietà delle nostre conquiste, come già in passato la biblica torre di Babele,
E intanto, quante biblioteche bruciate in pochi giorni e quanta solitudine senza più un anziano a tenderci la mano, ad accompagnarci, a mostrarci la strada, a reggere il timone, come un tempo facevano i «Senatores» nella nascente Res-Publica romana e i «Presbiteri» nella Chiesa Cattolica, che vuol dire «i più anziani» di tutti, da schierare attorno all’altare.
Anni fa ho avuto la fortuna di intervistare una mamma novantenne di Piove di Sacco (PD) che si era sposata per procura pur di raggiungere il suo futuro sposo, emigrato in Argentina. Là si era ingegnata a fare di tutto, aveva aiutato tanti altri connazionali, aveva assistito persino ai funerali di Evita Peron. Nel parlarmene era talmente orgogliosa che in puro dialetto veneto amava ripetermi in continuazione: «E mi go fato questo, e mi go fato queo», con il giusto sentire di chi si è fatto tutto da solo per costruirsi un futuro meno precario, per sé e per gli altri. Tant’è che, dopo l’intervista, arrivato il momento di dare alle stampe queste memorie tratte dai suoi racconti, il titolo del libro non poté che essere: «Io, Zelinda», così si chiamava la signora, che io familiarmente chiamavo Zeli. E ora che non c’è più sono contento di aver contribuito a che il racconto della sua vita non andasse a fuoco per sempre.