E’ una espressione di minaccia che viene adoperata in determinati ambiti culturali per indicare una sorta di rivalsa sull’avversario e trae origine dall’atto proditorio della morte di Cesare. In realtà questa famosa frase, che ha tutto il sapore di una vendetta postuma del tipo:”Presto o tardi me la pagherai!” non ha nessuna base storica ma è entrata a far parte del parlare comune grazie al successo letterario della tragedia “Giulio Cesare” scritta da William Shakespeare che la fa pronunciare al fantasma di Cesare apparso a Bruto.
Più veritiera, piuttosto, appare l’altra espressione:“Tu quoque Brute fili mi!” tramandata dallo storico Svetonio, “Anche tu, Bruto, figlio mio” che Cesare avrebbe pronunciato morente nei confronti del figlio adottivo, sotto i colpi di ventitré pugnalate, mentre cercava invano di ripararsi il volto con i lembi della toga. Era il 15 marzo del 44 a.C. , le famose Idi di marzo secondo i calcoli del calendario giuliano riformato da Cesare stesso appena due anni prima, diviso per l’appunto in Idi (a metà del mese) e in Calende (all’inizio del mese), da cui il nome calendario. Bruto, che si era schierato dalla parte dei congiurati repubblicani ostili all’instaurarsi del potere dittatoriale del padre, partecipò purtroppo, dopo non poche esitazioni, al complotto assieme a Cassio.
Dopo la morte di Cesare, al vuoto di potere che ne seguì, si sostituì quello che va sotto il nome di “triumvirato” cui presero parte Antonio, Lepido e Ottaviano e furono loro, in particolare Ottaviano in quanto pronipote di Cesare e da lui scelto come erede, a dichiarare Bruto e Cassio nemici pubblici. Banditi da Roma come traditori, ricercati e inseguiti fino in Grecia, lo scontro fra l’esercito dei ribelli e quello dei lealisti ebbe luogo nei pressi della città di Filippi, in Macedonia, nel 42 a.C. In un primo tempo la battaglia sembrò addirittura volgersi a favore dei due congiurati ma alla fine entrambi, quando capirono di non avere più scampo, si tolsero la vita. La resa dei conti era arrivata e poi, in una scia interminabile di vendette e di sangue, fu data la caccia pure ai sostenitori del complotto ed anche ai semplici simpatizzanti, Cicerone in primis, che aveva attaccato violentemente Antonio nelle sue famose “filippiche” e che per questo venne barbaramente assassinato a Formia l’anno dopo, il 7 dicembre del ‘43.
Ed ecco che con le “filippiche” ci imbattiamo in un’altra delle espressioni usate nel linguaggio comune anche se, in verità, nulla hanno a che vedere con la sopracitata città greca della battaglia. Si tratta, in questo caso, di 14 “Orazioni” o arringhe ciceroniane composte alla maniera del grande oratore greco Demostene che aveva indirizzato le sue “filippiche” contro Filippo II il macedone, padre di Alessandro Magno. Il motivo? Le mire espansionistiche di invadere la Grecia per impadronirsene, come poi di fatto avvenne. Le “filippiche” di Cicerone contro Antonio sono rimaste ancora oggi nel gergo curiale a indicare delle lunghe arringhe da parte degli avvocati o delle dure requisitorie da parte dei pubblici ministeri nei confronti degli imputati. Potenza della storia antica!
Due note per la cronaca:
1. Circa un secolo dopo la battaglia, con l’avvento del Cristianesimo, la città di Filippi tornerà ad avere un ruolo notevole nella evangelizzazione dell’apostolo Paolo che indirizzerà alla nascente comunità cristiana del luogo le sue lettere (epistole) ai Filippesi, commentate ancor oggi in tutte le chiese cattoliche del mondo.
2. Dante Alighieri, nella Divina Commedia, metterà Bruto e Cassio nella parte più profonda dell’Inferno, la Giudecca, tra le fauci dello stesso Lucifero, assieme a Giuda Iscariota, in quanto considerati traditori dei loro benefattori.