Non so voi ma io, da piccolo, verso gli anni ‘50 del secolo scorso, ho avuto modo di sentire più di una volta mia madre, quando si spazientiva con qualcuno, esclamare: «Ma chi si crede di essere quella là, la regina Taitù?». Di solito il complimento, se così si può dire, era rivolto a qualche donna del vicinato particolarmente altezzosa ed arrogante, ma anche le mie sorelle, quando facevano qualche capriccio di troppo, non venivano risparmiate ed erano apostrofate così, senza tanti riguardi. All’epoca, per me ragazzino, questo strano nome esotico mi portava a pensare più ad uno scioglilingua delle fiabe che non alla storia in sé, e così mai mi era venuto in mente di chiedere spiegazioni. Era un’espressione popolare molto in voga e come tale non richiedeva tanti chiarimenti, si usava e basta. Eppure la curiosità mi è venuta più tardi, molto più tardi, in età adulta, quando oramai il vezzo di nominare la regina Taitù era passato da un bel po’ e ben altre regine, quelle televisive soprattutto, ne avevano preso il posto.
Il suo vero nome più che una fiaba é una poesia: Taitù Batùl Zehetiopia Berehan e cioè: sole e luce di Etiopia, consorte imperatrice del Negus Neghesti Menelik II.
Embè, direte voi, cosa c’entra adesso tutta questastoria dell’Etiopia con noi?
C’entra purtroppo, c’entra eccome e fa parte della prima penetrazione coloniale italiana in terra d’Africa quando, buoni ultimi, ci arrivammo nel 1882, dopo Inglesi, Francesi, Tedeschi, Olandesi, Belgi che se n’erano già spartita più di tre quarti, ognuno per accaparrarsi le sue ingenti risorse. Anche noi dunque, dopo la costituzione dell’Unità d’Italia, per dare maggior prestigio al nostro giovane Stato e volendo dimostrare al mondo la nostra forza militare ci avventurammo laggiù, credendo di trovare un gruppo di tribù disordinate da sottomettere invece che un impero millenario, discendente nientemeno che da Salomone e dalla regina di Saba.
Per farla breve, dopo neppure quindici anni di incipiente colonialismo, ci accorgemmo di esserci cacciati in un brutto, bruttissimo affare che toglieva risorse al nostro paese più che apportarne. Ben presto dovemmo fare i conti con soldati di un esercito senza uniformi, sì, ma che però erano guerrieri indomiti: i Tigrini, gli Amahra, gli Scioani e soprattutto i Galla, cavalieri instancabili, astuti e feroci. Si muovevano in masse sterminate dietro le insegne dell’imperatore e dei Ras vestiti di rosso e, quando la battaglia si faceva più dura e anche per loro si prospettava un’ecatombe sotto il fuoco dei nostri fucili ecco farsi avanti lei, la regina Taitù in persona, ad incitare impavida i suoi alla lotta, il volto velato, protetta solo da un ombrello nero in segno di lutto. E fu così che nella “battaglia dei leoni” del 1896, sull’Amba Alagi prima e ad Adua poi, subimmo una cocente sconfitta, poi riscattata, si fa per dire, esattamente quarant’anni dopo, nel 1936, con la campagna in Africa Orientale di mussoliniana memoria. A questa nuova, infausta guerra partecipò pure mio padre, “fondatore” di un impero di…carta, come recita la didascalia di una vecchia foto d’epoca che conservo.
Megalomania di potenza, si dirà, che non durerà più di un quinquennio e si sbriciolerà con la seconda guerra mondiale. Ma questa è tutta un’altra storia.
Oggi, nella capitale Addis Abeba il Taitù Hotel, inaugurato dalla regina in persona più di cento anni fa, continua a perpetuarne il mito e la memoria.