Eugenio Pianta, nato a Legnaro il 28 maggio 1890, visse sempre nel nostro Comune e si spense a Padova il 5 agosto 1979. Dedicò tutta la sua vita alla formazione e all’educazione di molte generazioni di giovani, sia di Ponte San Nicolò che dei paesi contermini. Amato e benvoluto da tutti, è ricordato come uomo disponibile, di grande talento e originalità. La sua capacità inventiva spaziava dai semplici lavori di artigianato a quelli di restauro, dalla fotografia al cinema e al teatro, dalla pittura ai fuochi d’artificio. Dipingeva sui muri esterni delle case vaste composizioni figurative con soggetto religioso. Ha lasciato un ricordo indelebile in tutti quelli che lo hanno conosciuto. La parrocchia di San Nicolò ha legato il suo nome a quello del patronato giovanile e il Comune gli ha dedicato una via.
(Tratto dal libro di Daniela Borgato «PONTE SAN NICOLO’ storie di uomini, terre, chiese, mulini»)
La mia estate con Eugenio Pianta
Era l’estate del mio primo o secondo anno delle superiori. Ero rimasto promosso e quindi… vacanza assoluta senza impegni già dal mese di giugno. Ma al tempo non c’erano il grest, i centri estivi o lo sport ed i genitori non erano asfissianti come oggi, ci lasciavano fare. La vacanza per noi ragazzi abituati a fare gruppo si faceva allora in piazza. Si giocava a pallone sui sassi, si giocava a querceti, muretto con le figurine addosso al muro della Chiesa, bandiera, palla avvelenata, ma anche si giocava a scacchi, dama e trea, corse in bici e raccolta del pallone dallo “scornio” quando puntualmente finiva nel fosso. Si andava presto a messa al mattino e chi era più assiduo riceveva più punti in vista di una possibile gita a fine vacanze. Gita che in genere riguardava una visita ad un Santuario con i chierichetti. Ma dopo la messa ci si fermava a giocare sul sagrato della Chiesa di Rio allora in terra battuta. Di tanto in tanto però passava il Parroco che ci sgridava bonariamente:”Bravi, bravi… siete venuti a messa ma adesso però andate a casa a fare i compiti, non si può stare sempre in piazza perché si sa la piazza è… femmina, non si impara nulla di buono ”. Noi non capivamo e continuavamo a giocare come prima, a strillare, ad andare a rincorrere la palla fin dentro al fosso ecc. In genere gli adulti, molto impegnati con il lavoro, non si curavano di noi, spesso non ci rivolgevano nemmeno la parola se non per sgridarci se il pallone finiva in strada o nel fosso o addosso alle case dei Miolo, dei Crivellari, dea Isa, da Campanaro, daea Pina dee Siore ecc. C’era un tizio che noi chiamavamo “Scoapiassa” che ci sgridava in modo molto blando sempre per le nostre urla e schiamazzi e perché sollevavamo la polvere. Eravamo veramente un bel numero ed indubbiamente facevamo chiasso.
Un bel giorno però apparve un omino in bicicletta, col cappello, la giacca, la cravatta a papillon ed il fare gentile. Si fermò a parlare con noi al bordo della piazza di Rio e ci disse con voce dolce: Tosi, go da fare un lavoro, go bisogno de na man da voialtri.
La gran parte di noi piassaroi rispose: Cossa? – Fare un lavoro? – Semo in vacansa no ghe pensemo proprio.
Io invece con alcuni altri fui molto attratto dai modi garbati del mio interlocutore e anche incuriosito dalla gran quantità di cose che si intravedevano sul portapacchi della sua bicicletta. Ed allora gli chiesi: Che genere de lavoro ghe xe da fare?.
E lui rispose: Costruiremo la grotta della Madonna dietro all’Asilo.
La cosa ci sorprese non poco perché, in genere, a noi ragazzi gli adulti non chiedevano mai di effettuare dei lavori se non in casa propria e solo per aiutare genitori e familiari.
Visto che però avevamo del tempo libero in un piccolo gruppo lo seguimmo e lui ci portò in un posto dietro all’asilo di Rio, allora non coltivato e pieno di erbacce, sassi e calcinacci che erano rimasti lì probabilmente dopo la costruzione dell’asilo.
Piazzò la sua bicicletta sul cavalletto e ci disse: “Datemi una mano a tagliare e porta via queste erbacce perché qui costruiremo la grotta della Madonna“. Ci colpì il suo coraggio o meglio la sua incoscienza perché le erbacce erano veramente molto alte, il terreno mal messo ed il grande fosso sulla destra che noi chiamavamo “scornio” non prometteva nulla di buono. Ma lui con il suo esempio ci aveva affascinato e ci mettemmo a togliere le erbe con lui, chi con le mani, chi andò a casa a prendere un badile, chi raccogliendo ed ammucchiando i sassi. Noi però, dai più piccoli ai più grandicelli, eravamo molto più bravi di lui a togliere le erbe e a raccogliere i sassi, lui era molto più impacciato ed allora ci lasciava fare dirigendoci, incoraggiandoci ecc.
Finalmente, dopo aver fatto pulizia ed anche un po’ di amicizia ci disse che lui si chiamava Eugenio Pianta, che veniva dal Ponte e che era colui che aveva dipinto sulla casa dei Miolo il ragazzo davanti alle due strade. E la firma posta in basso del quadro era proprio la sua firma. Per la verità fino a quel momento nessuno di noi aveva fatto molto caso a quel muro dipinto sulla casa in questione, quella che chiudeva dal lato più stretto la piazza. Era il muro della casa dei Miolo che confinava col sagrato della chiesa. Eppure ci giocavamo sempre lì davanti e ci piazzavamo pure una delle due porte del nostro irregolare campo di calcio. A me addirittura quella parete sembrava pure brutta perché ne vedevo soprattutto la parte inferiore ove vi erano sbarre, porte chiuse, creature mostruose di color rosso scuro, diavoli con le zampe e le bocche urlanti, fiamme come in un incendio.
Ma il nostro nuovo amico Eugenio dopo il lavoro si mise pazientemente a spiegarci che da un lato del dipinto vi era un bel ragazzo come noi, che davanti a sé aveva due strade, una larga in discesa ed una stretta in salita. Stava a quel ragazzo scegliere quale via intraprendere. Però la via più facile in discesa portava all’inferno, mentre la via più lunga e stretta portava al paradiso. Ci invitò ad alzare la testa e a guardare in alto, proprio vicino alla cornice del tetto ed avremmo visto la strada stretta che portava verso la luce, angeli bellissimi, bianchi, il sole, ecc. Con questa spiegazione capii finalmente il significato di quella grande pittura che fino a quel momento mi sembrava alquanto astrusa e molto meno interessante dei vari giochi che avviavamo sotto a quel muro. E, ora che ne avevo capito il significato, mi sembrò del tutto nuova, come se non l’avessi mai vista prima…
Eugenio ci diede appuntamento per il giorno dopo e puntualmente, dopo la messa del mattino, si ripresentò con la sua bicicletta con le due cassette, una davanti ed una dietro, il suo cappello, il suo cravattino scuro annodato a papillon. Ci chiamò al lavoro dicendoci serio: “Ragazzi, oggi faremo la fondamenta”. Posò la bicicletta sul cavalletto, si tolse la giacca rimanendo con il gilet a quadri e si mise a dirigere i lavori. I ragazzi più vicini all’asilo procurarono chi un badile, chi un piccone, che noi in dialetto chiamavamo pico, chi un carrettino, meglio detto biga o bighetta. E, sotto la sua direzione, cominciammo a scavare prima col picco e poi col badile poi caricavamo la biga e trasportavamo il terreno sul lato opposto del campo, là dove le suore avevano costruito un piccolo orticello. Quel giorno fu dedicato interamente allo scavo delle fondamenta.
Il giorno dopo arrivò un tizio col motocarro che scaricò tre sacchi di cemento, poi ecco di nuovo farsi vivo Eugenio. Raccogliendo i sassi che avevamo ammucchiati il giorno prima ed impastato il cemento con l’acqua e la sabbia cominciammo la costruzione. Usammo tutti i sassi a disposizione e con la bighetta ne andammo a prendere anche degli altri in giro per i cantieri, sul retro della chiesa. Poi il nostro Eugenio posò dei pali per terra e fece l’armatura per creare la nicchia della grotta, mentre noi impastavamo cemento e sabbia. Ad un certo punto della costruzione Eugenio tirò fuori dei vecchi sacchi di juta tutti rotti, di quelli che si usavano per raccogliere il frumento, li tagliò e li coprì di cemento e sabbia molto liquidi, invitando anche noi a raccogliere e a portargli sassi, ferri, reti ecc. Corremmo a casa e per i campi e gli portammo chi sassi, chi masegne, qualcuno pezzi di rete vecchia, un ragazzo addirittura una rete metallica tutta arrugginita che disse aver tolto dal “sarajo” delle galline. Eugenio ringraziava, copriva tutto con il cemento e la sabbia e proseguiva imperterrito con la sua costruzione. E così per diversi giorni. Arrivati alla sommità della grotta ci disse che ora la costruzione doveva riposare per un po’ mentre noi, nel frattempo, dovevamo buttarci sopra delle secchiate d’acqua per tenerla sempre bagnata. Dopo alcuni giorni ritornò sempre con la sua attrezzatissima bicicletta e ci insegnò a colare con le mani il cemento liquido sulla costruzione in modo da coprire tutti i sassi, i ferri ecc. Noi eseguimmo con allegria come se si fosse trattato di costruire un castello di sabbia.
Una volta colato il cemento Eugenio aprì una della due cassette della bicicletta e tirò fuori alcuni sacchetti di terre colorate. Una era rosso mattone, un’altra marrone scuro, una rosso vivo, il giallo, il verde ecc. Con le mani gettò sul cemento fresco, in alcuni posti da lui prestabiliti, parte di queste terre colorate che pian piano furono assorbite e così la nostra grotta cominciò a colorarsi tutta perché di solo color grigio cemento era proprio bruttina. Ma ora, con tratti di verde, di rosso mattone e altro cominciava a diventare davvero bella. A questo punto con Eugenio costruimmo sul lato destro una nicchia sempre con sassi, cemento, rete e sabbia, una nicchia ove collocare la statua della Madonna, mentre il retro della grotta lo coprimmo con la terra che avevamo accumulato dallo scavo.
Ecco, ho voluto raccontare questo aneddoto perché Eugenio quell’estate mi sorprese non poco, tanto era un uomo diverso da tutti gli altri, sia nel fare che nei modi. Un vero artista dall’animo leggero, sorprendente, convinto di quello che faceva, come il musicista che vola nei quadri di Chagall o l’omino nei quadri di Magritte. Ma anche un maestro che voleva sempre insegnare qualcosa a noi ragazzi. E riuscì davvero a coinvolgerci e ad entusiasmarci con la sua arte e con la sua bicicletta dalla quale spuntavano sempre cose nuove: foto, tele, vasetti pieni di colori e pennelli che lui, calmo e impassibile, maneggiava con maestria ed eleganza, non privo di un pizzico di fanciullesca ingenuità.
Ricordo con nostalgia quell’estate indimenticabile ed il modo col quale conobbi Eugenio Pianta.
Ricordo di Leone Barison